«Non lo so,» disse il Carnivoro, «e non mi piace. Ti guarda dentro. Ti squarcia fino alle viscere. È per questo che me ne sono andato così in fretta. M’innervosisce. Mi trasforma il sangue in acqua. Ma mi sono trattenuto troppo a lungo. Mi ha colto sulla strada di casa.»
«Sapevi che sarebbe venuta?»
«Viene tutti i giorni. O quasi tutti. Qualche volta, ma non per molto tempo, non viene affatto. Si sposta durante il giorno. Adesso viene di sera. Ogni volta viene una frazione di tempo più tardi. Si sposta nel corso del giorno e della notte. Continua a cambiare l’ora, ma il cambiamento è mìnimo.»
«È sempre venuta, in tutto il tempo che sei qui?»
«Sempre,» disse il Carnivoro. «Non lascia mai in pace.»
«Non hai idea di cosa sia?»
«Shakespeare diceva che era qualcosa venuto dallo spazio. Diceva che agisce come qualcosa di lontano nello spazio. Viene quando il punto del pianeta dove ci troviamo è rivolto verso un punto lontano, nello spazio.»
Nicodemus era andato a curiosare lungo il cornicione di roccia, chinandosi qua e là per raccogliere qualche sasso. Adesso ritornò verso di loro, reggendo in mano parecchie piccole pietre.
«Smeraldi,» disse. «Dissepolti dalle intemperie ed esposti sul terreno. Ve ne sono altri nella matrice.»
Li porse a Horton. Horton li guardò attentamente, tenendoli nel palmo della mano e rigirandoli con la punta dell’indice.
Carnivoro si sporse a guardarli. «Pietre graziose,» disse.
«Diavolo, no,» fece Horton. «Sono ben più che pietre graziose.» Alzò gli occhi su Nicodemus. «Come l’hai capito?» chiese.
«Porto il mio transmog da cercatore di pietre,» disse il robot. «Ho messo il transmog da ingegnere, e c’era spazio per un altro, perciò ho messo questo…»
«Il transmog da cercatore di pietre! E cosa diavolo te ne fai?»
«Ognuno di noi,» spiegò paziente Nicodemus, «fu autorizzato a includere un transmog per hobby. Per nostra gratificazione personale. Vi sono transmog filatelici, e scacchistici, e molti altri, ma io pensavo che un transmog da collezionista di pietre…»
Horton rimescolò gli smeraldi. «Dici che ce ne sono altri?»
«Direi,» disse Nicodemus, «che abbiamo scoperto una fortuna. Una miniera di smeraldi.»
Carnivoro tuonò: «Come sarebbe a dire, una fortuna?»
«Ha ragione,» disse Horton. «Questa collina potrebbe essere una miniera di smeraldi.»
«Quelle graziose pietre hanno valore?»
«Un valore grandissimo, tra la mia gente.»
«Non l’avevo mai sentito,» disse il Carnivoro. «Mi sembra una pazzia,» indicò gli smeraldi, sprezzantemente. «Solo pietre graziose, piacevoli all’occhio. Ma cosa ve ne fate?»
Si alzò, lentamente. «Andiamo avanti,» disse.
«D’accordo, andiamo avanti,» disse Horton. Restituì gli smeraldi a Nicodemus.
«Ma dovremmo guardarci intorno…»
«Dopo,» disse Horton. «Li troveremo ancora qui.»
«Occorrerà una ricognizione, in modo che la Terra…»
«La Terra non pensa più a noi,» disse Horton. «Tu e Nave l’avete detto chiaro. Qualunque cosa accada, qualunque cosa troviamo, Nave non tornerà indietro.»
«Voi parlate in modo incomprensibile per me,» disse Carnivoro.
«Scusaci,» rispose Horton. «È un piccolo scherzo tra noi. Non merita che te lo spieghi.»
Continuarono la discesa e attraversarono un’altra valle, e poi salirono un altro pendio. Questa volta non vi furono pause. Il sole ascese nel cielo, scacciando un po’ l’oscurità della foresta. Il giorno divenne tepido.
Carnivoro procedeva con un’andatura sciolta e sostenuta, mentre Horton gli sbuffava dietro e Nicodemus stava alla retroguardia. Horton lo guardava e cercava di capire che tipo di creatura poteva essere. Era un bestione, naturalmente, su questo non c’era dubbio… ma un bestione feroce, e poteva essere pericoloso. Sembrava abbastanza amichevole, con tutte quelle chiacchiere sul suo amico Shakespeare, ma era meglio tenerlo d’occhio. Finora non aveva mostrato altro che un rustico buonumore. Non c’era da dubitare che il suo affetto per l’umano non fosse stato autentico, anche se Horton rabbrividiva ancora al pensiero di quando aveva detto di aver divorato Shakespeare. Il mancato riconoscimento del valore degli smeraldi, da parte sua, era un fattore sconcertante. Sembrava impossibile che una cultura, quale che fosse, non riconoscesse il valore delle gemme: a meno che si trattasse di una cultura che non aveva il concetto d’ornamento.
Dall’ultima collina su cui si erano arrampicati scesero, non in una valle, ma in una depressione a forma di conca, cinta da alture. Carnivoro si fermò così bruscamente che Horton, il quale lo seguiva da vicino, andò a sbattergli contro la schiena.
«Ecco,» disse Carnivoro, indicando. «Potete vederlo, da qui. Gli siamo quasi sopra.»
Horton guardò nella direzione indicata. Non vedeva altro che la foresta.
«Quella cosa bianca?» chiese Nicodemus.
«Infatti,» disse Carnivoro, felice. «Eccola, la sua bianchezza. Io lo tengo pulito e lustro, e strappo via tutte le piantine che si azzardano a crescervi, e tolgo la polvere. Shakespeare lo chiamava greco. Ditemi, signore o robot, che cos’è un greco? Io lo chiedo a Shakespeare, ma lui si limita a ridere e scuote la testa e dice che è una storia troppo lunga. Qualche volta penso che neppure lui lo sa. Ha solo usato una parola che aveva sentito.»
«I greci erano un popolo umano,» disse Horton. «Raggiunsero la grandezza molti secoli fa. Un edificio costruito come costruivano loro è detto greco. È un termine molto generico. L’architettura greca ha molti fattori.»
«Costruito semplicemente,» disse Carnivoro. «Muro, e tetto e porta. Tutto lì. Però è un buon habitat per viverci. Impermeabile al vento e alla pioggia. Ancora non lo vedi?»
Horton scosse il capo. «Lo vedrai presto,» disse Carnivoro. «Ci arriveremo in fretta.»
Scesero il pendio e, quando arrivarono alla base, Carnivoro si fermò di nuovo. Indicò un sentiero. «Da quella parte, a casa,» disse. «Da quella, dopo un paio di passi, si arriva alla fonte. Vuoi bere un po’ d’acqua buona?»
«Con piacere,» disse Horton. «È stata una camminata tremenda. Non molto lunga, ma sempre a salire e scendere.»
La fonte sgorgava dal fianco della collina in un laghetto cinto di roccia, da cui l’acqua sfuggiva formando un sottile rigagnolo.
«Precedetemi,» disse Carnivoro. «Siete miei ospiti. Shakespeare diceva che gli ospiti passano sempre per primi. Io ero ospite di Shakespeare. Lui era qui prima di me.»
Horton s’inginocchiò, si puntellò con le mani, e abbassò la testa per bere. L’acqua era così fredda che parve bruciargli la gola. Si rialzò, e si accosciò sui talloni, mentre Carnivoro si lasciava cadere a quattro zampe, abbassava la testa e beveva… Non beveva veramente, allappava l’acqua come avrebbe fatto un cane o un gatto.
Per la prima volta, mentre se ne stava lì accosciato, Horton vide e apprezzò veramente la cupa bellezza della foresta. Gli alberi erano fitti e scuri, anche in pieno sole. Sebbene non fossero conifere, la foresta gli ricordava le grandi pinete nelle terre nordiche della Terra. Intorno alla fonte, fino ad estendersi sul pendio da cui erano scesi, c’erano ciuffi di arbusti, alti circa un metro, tutti color rosso sangue. Horton non ricordava di aver visto un fiore od un bocciolo da nessuna parte. Annotò mentalmente di chiederlo, più tardi.
A metà del sentiero, vide finalmente l’edificio che il Carnivoro aveva cercato di indicargli. Sorgeva su un dosso, in una piccola radura. Aveva un’aria greca, sebbene non ricordasse l’architettura greca, né nessun’altra. Piccolo, costruito di pietra bianca, aveva linee semplici e severe, ma sembrava avere un aspetto di scatola, squadrato. Non c’erano colonnati né fregi eleganti… solo quattro mura, una porta disadorna, e un frontone, non molto alto e non molto aguzzo.