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«Shakespeare abitava lì, quando io arrivo,» disse Carnivoro. «Mi sistemo con lui. Passiamo giorni felici, là. Il pianeta è in fondo al nulla, ma la felicità è dentro.»

Attraversarono la radura e si avvicinarono all’edificio, affiancati. Arrivato a pochi passi, Horton alzò la testa e vide qualcosa che prima gli era sfuggito, con quel candore calcinato perduto nel candore della pietra. Si fermò, inorridito. Infisso sopra la porta c’era un teschio umano sogghignante.

Carnivoro si accorse che Horton lo fissava. «Shakespeare ci dà il benvenuto,» disse. «Quello è il cranio di Shakespeare.»

Affascinato e inorridito, Horton vide che a Shakespeare mancavano due denti anteriori.

«È stato difficile sistemare Shakespeare lassù,» stava dicendo Carnivoro. «È un brutto posto per metterlo, perché l’osso presto si rovina e si sgretola, ma l’aveva chiesto lui. Il teschio sopra la porta, mi disse, le ossa dentro, appese nei sacchi. Io faccio come vuole lui, ma è stato un compito doloroso. L’ho fatto senza soddisfazione, per un senso di dovere e d’amicizia.»

«È stato Shakespeare a chiedertelo?»

«Sì, certo. Pensi che l’abbia fatto di mia iniziativa?»

«Non so cosa pensare.»

«Il modo della morte,» disse quello. «Divorarlo mentre lui muore. Una funzione sacerdotale, ha spiegato. Io faccio come lui dice. Prometto di non vomitare, e non vomito. Mi faccio forza e lo divoro, anche se ha cattivo sapore, fino all’ultima briciola. Ripulisco le ossa meticolosamente, finché restano solo quelle. Più di quanto mi sentissi di mangiare. Pancia piena da scoppiare, ma continuo a mangiare, senza smettere mai fino a quando è tutto andato. Lo faccio bene, scrupolosamente. Lo faccio con tutta santità. Non svergogno il mio amico. Ero l’unico amico che aveva.»

«Può darsi,» disse Nicodemus. «La razza umana è capace di escogitare nozioni bizzarre. Un amico che divora l’altro, in un atto di rispetto. Tra le popolazioni preistoriche era in vigore il cannibalismo rituale… era rendere un onore speciale a un vero amico o a un grand’uomo, divorarlo.»

«Ma erano tempi preistorici,» obiettò Horton. «Non ho mai saputo che una razza moderna…»

«Mille anni,» disse Nicodemus. «Sono trascorsi mille anni da quando abbiamo lasciato la Terra. C’è stato tutto il tempo di sviluppare strane credenze. Forse i popoli preistorici sapevano qualcosa che noi non sapevamo. Forse il cannibalismo rituale aveva una logica, ed è stata riscoperta nell’ultimo millennio. Una logica tortuosa, probabilmente, ma con fattori accattivanti.»

«Tu dici,» chiese Carnìvoro, «che la tua razza non lo fa? Non capisco.»

«Mille anni fa non lo facevano: ma forse adesso lo fanno.»

«Mille anni fa?»

«Abbiamo lasciato la Terra un millennio fa. Forse da molto più tempo. Non conosciamo la matematica della dilatazione temporale. Potrebbero essere passati più di mille anni.»

«Ma nessun umano vìve mille anni.»

«È vero, ma io ero ibernato. Il mio corpo era congelato.»

«Se ti congeli, muori.»

«Non nel modo in cui lo facevamo noi. Un giorno o l’altro te lo spiegherò.»

«Non pensate male di me perché ho divorato Shakespeare?»

«No, naturalmente non pensiamo male di te,» disse Nicodemus.

«È un bene,» disse Carnivoro, «perché altrimenti non mi volete portare con voi quando ve ne andrete. Desidero moltissimo lasciare questo pianeta al più presto possibile.»

«Forse riusciremo a riparare il tunnel,» disse Nicodemus. «Se ci riusciremo, potrai andartene per il tunnel.»

10.

Il tunnel era un quadrato di tre metri per tre, di tenebra specchiante, inserito nella faccia d’una piccola cupola di roccia che sporgeva dal suolo a poca distanza dall’edificio greco. Tra questo e la cupola si snodava un sentiero scavato fino alla roccia, o addirittura nella roccia stessa. In passato, chissà quando, lì c’era stato un traffico intenso.

Carnivoro indicò la tenebra specchiante. «Quando funziona,» disse, «non è nero, ma bianco e lucente. Tu ci entri, e al secondo passo sei altrove. Adesso, se entri, ti respinge. Non puoi avvicinarti. Lì non c’è niente, ma il niente ti spinge indietro.»

«Ma quando ti porta da qualche parte,» chiese Horton, «quando funziona, voglio dire, e ti porta da qualche parte, come fai a sapere dove sei arrivato?»

«Non lo sai,» disse Carnivoro. «Una volta, forse, tu indicavi dove volevi andare, ma adesso no. Quel macchinario lì,» fece, agitando il braccio, «quel pannello accanto al tunnel… una volta era possibile usarlo per scegliere la destinazione, ma adesso nessuno sa come funzioni. Però non fa molta differenza. Se non ti piace il posto dove arrivi, rientri nel tunnel e vai altrove. Magari dopo molti tentativi, trovi qualche posto che ti piace. Per me, sarò felice di andarmene dovunque.»

«Non mi sembra giusto,» disse Nicodemus.

«Certo che non lo è,» osservò Horton. «L’intero sistema dev’essere fuori squadra. Nessuno, se avesse la testa a posto, costruirebbe un sistema di trasporto non selettivo. In questo modo potresti impiegare secoli per arrivare a destinazione… ammesso che ci arrivi.»

«Va molto bene,» disse placido Carnivoro, «per uno che deve nascondersi. Nessuno, neppure l’interessato, sa dove andrà a finire. Forse se l’inseguitore ti vede infilare nel tunnel e s’infila dietro di te, va a finire in un posto diverso.»

«Lo sai, o tiri solo a indovinare?»

«Tiro a indovinare, credo. Come posso saperlo?»

«Tutto il sistema è fuori squadra,» disse Nicodemus, «se funziona a casaccio. Non ci puoi viaggiare. Tu giochi una partita, e il tunnel vince sempre.»

«Ma questo non ti porta da nessuna parte,» gemette Carnivoro. «Non sono schizzinoso, per la destinazione… mi va bene qualunque posto, pur di non restare qui. La mia ardente speranza è che potete ripararlo, in modo che mi porta in un posto qualsiasi.»

«Sospetto,» disse Horton, «che sia stato costruito molti millenni fa, e che i costruttori l’abbiano abbandonato da secoli. Senza un’adeguata manutenzione, si è scassato.»

«Ma non è questo che conta,» protestò Carnivoro. «L’importante è: potete ripararlo?»

Nicodemus si era avvicinato al pannello inserito nella roccia, accanto al tunnel. «Non so,» disse. «Non sono neppure in grado di leggere gli strumenti, se sono tali. Alcuni sembrano congegni per la manipolazione, ma non posso esserne sicuro.»

«Non sarebbe male provare e vedere cosa succede,» disse Horton. «Non puoi peggiorare la situazione.»

«Ma non posso,» disse Nicodemus. «Non riesco neppure a toccarli. Sembra che ci sia una specie di campo di forza. Sottile come un foglio di carta, forse. Posso mettere le dita sugli strumenti, o meglio, credo di mettercele, ma non c’è contatto. Non li tocco veramente. Li sento sotto le dita, ma non sono veramente in contatto. Come se fossero rivestiti di grasso viscido.»

Alzò una mano e l’osservò attentamente. «Ma non c’è grasso,» disse.

«Quel maledetto coso funziona solo in una direzione,» abbaiò Carnivoro. «E doveva funzionare in due.»

«Aspetta a disperarti,» fece laconico Nicodemus.

«Credi di poter fare qualcosa?» chiese Horton. «Hai detto che c’è un campo di forza. Può essere pericoloso. Tu sai niente dei campi di forza?»

«Niente di niente,» fece tutto allegro Nicodemus. «Non sapevo neanche che questo potesse esserlo. L’ho chiamato così, perché il termine mi è saltato in mente. Non so cosa sia.»

Depose la cassetta degli utensili che aveva portato e s’inginocchiò per aprirla. Cominciò a disporre gli attrezzi sul sentiero roccioso.

«Voi avete le cose per ripararlo,» gracchiò Carnivoro. «Shakespeare non le aveva. Non ho i maledetti utensili, diceva.»

«Gli sarebbero serviti a molto, anche se li avesse avuti,» disse Nicodemus. «Anche avendoli, bisogna sapere come usarli.»