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«E tu lo sai?» chiese Horton.

«Puoi proprio dirlo,» fece Nicodemus. «Ho il transmog da ingegneria.»

«Gli ingegneri non usano gli utensili. Li usano i meccanici.»

«Non mi scocciare,» disse Nicodemus. «Alla vista e al contatto degli attrezzi, va tutto a posto.»

«Non me la sento di stare a guardare,» disse Horton. «Credo che me ne andrò. Carnivoro, tu hai parlato di una città in rovina. Andiamo a darle un’occhiata.»

Carnivoro esitò. «Ma se ha bisogno di aiuto. Qualcuno che gli passa gli utensili, magari. Se ha bisogno di un appoggio morale…»

«Avrò bisogno di ben altro che d’appoggio morale,» disse il robot. «Avrò bisogno di una gran fortuna, e un intervento divino non farebbe male. Andate a vedere la vostra città.»

11.

Neppure con uno sforzo d’immaginazione la si poteva definire una città. Non più d’una dozzina d’edifici, nessuno molto grande. Erano strutture rettangolari di pietra, e avevano l’aria di casermette. Il sito si trovava a meno di un chilometro dall’edificio su cui era inchiodato il cranio di Shakespeare, su di un lieve rialzo del terreno, sopra uno stagno. Arbusti fitti e alcuni alberi erano cresciuti tra le costruzioni. In molti punti, insediandosi contro i muri o gli angoli degli edifici, gli alberi avevano smosso o fatto cadere le pietre. Sebbene quasi tutte le costruzioni fossero avvolte da una fitta vegetazione, qua e là si scorgevano sentieri.

«È stato Shakespeare ad aprirli,» disse Carnivoro. «Veniva qui ad esplorare, e portava qualcosa a casa. Non molto, solo qualche oggetto di tanto in tanto. Quello che gli colpiva la fantasia. Dice che non dovevamo disturbare i morti.»

«I morti?» chiese Horton.

«Be’, forse così suona troppo drammatico. Quelli andati, allora, quelli andati via. Però neppure questo suona bene. Come si può disturbare quelli che sono andati via?»

«Gli edifici sono tutti eguali,» disse Horton. «A me sembrano casermette.»

«Casermette è una parola che non conosco.»

«Un posto per alloggiare un buon numero di persone.»

«Alloggiare? Farci vivere?»

«Infatti. Un tempo qui viveva parecchia gente. Un centro di scambi commerciali, forse. Casermette e magazzini.»

«Qui non c’è nessuno per commerciare.»

«Be’, allora… cacciatori, minatori. Ci sono gli smeraldi che ha trovato Nicodemus. Forse questo posto è pieno di formazioni geologiche o di ghiaie gemmifere. O di animali da pelliccia…»

«Niente animali da pelliccia,» rispose decìso Carnivoro. «Animali da carne, ecco tutto. Alcuni predatori di infimo ordine. Niente di cui dobbiamo aver paura.»

Nonostante il biancore della pietra con cui erano stati costruiti, gli edifici davano una sensazione di squallore, come se non fossero altro che baracche. Al tempo in cui erano stati eretti, era evidente che era stata aperta una radura, perché nonostante la presenza degli alberi, la foresta fitta si teneva ancora lontana. Ma nonostante lo squallore, le strutture davano un senso di solidità.

«Sono state costruite per durare,» disse Horton. «Era una specie di insediamento permanente, o destinato ad essere tale. È strano che l’edificio in cui abitavate tu e Shakespeare fosse lontano da tutti gli altri. Poteva essere, penso, una guardiola per sorvegliare il tunnel. Hai esplorato questi edifici?»

«Io no,» disse Carnivoro. «Mi ripugnano. Hanno qualcosa di malvagio. Di pericoloso. Entrare in uno di essi è come entrare in una trappola. Ho l’impressione che si chiude su di me e poi non mi lascia uscire. Shakespeare vi andava a curiosare, e io m’innervosivo. Lui porta fuori alcuni piccoli oggetti che l’affascinavano. Comunque, come ho detto, non metteva disordine. Diceva che doveva toccare ad altri della sua specie che s’intendevano di queste cose.»

«Archeologi?»

«È la parola che cercavo. Mi scappava dalla lingua. Shakespeare diceva che non bisognava fare confusione e lasciare tutto agli archeologi. Loro imparano molte cose, dove lui non impara niente.»

«Ma hai detto…»

«Solo qualche oggettino. Facile da prendere in mano. Piccolo, diceva, da portar via, e magari di valore. Dice che non bisogna sputare in faccia alla fortuna.»

«E secondo Shakespeare, cosa poteva essere questo posto?»

«Aveva molte idee. Soprattutto, dopo aver pensato molto, si chiedeva se non era un posto per malfattori.»

«Vuoi dire una colonia penale.»

«A quanto ricordo, non usava queste parole. Ma pensava che era un posto per tenere quelli indesiderati altrove. Pensa che forse il tunnel non aveva mai funzionato se non in una direzione. Mai andata e ritorno, solo andata. Così, quelli mandati qui non potevano mai tornare indietro.»

«È ragionevole,» disse Horton. «Ma non inevitabile. Se il tunnel fu abbandonato in un lontano passato, deve essere rimasto a lungo privo di manutenzione, e progressivamente si è guastato. E non mi sembra chiaro neanche quando dici che non sai dove vai quando entri in un tunnel, o che se vi entrano due persone finiscono in posti diversi. Un sistema di trasporto a casaccio non è pratico. In condizioni simili, è improbabile che il tunnel venisse molto usato. Quel che non capisco è perché gente come te e Shakespeare se ne siano serviti.»

«I tunnel,» rispose disinvolto Carnivoro «sono usati solo da quelli cui non importa niente. Solo da quelli che non hanno scelta. Vanno in posti dove non ha senso andare. Tutti i pianeti dove portano i tunnel sono abitabili. Aria da respirare. Non troppo caldi, non troppo freddi. Non sono posti che ti ammazzano: ma molti non valgono niente. Molti posti dove non c’è nessuno, e forse non c’è mai stato nessuno.»

«Coloro che costruirono le gallerie dovevano avere una ragione per andare su tanti pianeti, anche su quelli che secondo te non valgono niente. Sarebbe interessante scoprire quella ragione.»

«I soli che possono dirtelo,» fece il Carnivoro, «sono quelli che fabbricano il tunnel. Loro sono andati. Sono altrove, o forse in nessun posto. Nessuno sa chi erano o dove cercarli.»

«Ma alcuni dei mondi dei tunnel sono abitati. Abitati da gente, voglio dire.»

«In tal caso, la definizione di gente è molto ampia e non troppo schizzinosa. Su molti pianeti dei tunnel, i guai possono arrivare in fretta. Sull’ultimo dove sono stato io, prima di venire qui, i guai non solo possono arrivare in fretta, ma sono anche grossi.»

Si erano avviati lentamente per i sentieri che si snodavano tra le costruzioni. Davanti a loro, il fitto sottobosco si chiudeva e cancellava il passaggio. Il sentiero finiva appena oltre la porta di uno degli edifici.

«Io entro,» disse Horton. «Se tu non vuoi venire, aspettami fuori.»

«Aspetterò,» disse Carnivoro. «Entrare mi mette i brividi alla schiena e mi torce le budella.»

L’interno era buio. C’era un’umidità, un sentore di muffito e un freddo che arrivavano alle ossa. Horton provò l’impulso di andarsene, di tornare subito alla luce del sole. Lì c’era un’alienità che si poteva percepire, ma non definire… la sensazione di essere in un luogo dove non si aveva il diritto di stare, l’impressione di disturbare qualcosa che doveva rimanere celato nel buio.

Rimase, piantando saldamente i piedi sul pavimento, sebbene avvertisse l’inizio di un brivido su e giù per la schiena. Poco a poco, i suoi occhi si abituarono all’oscurità, e cominciò a distinguere i contorni. Contro il muro, sulla destra, c’era qualcosa che poteva essere solo un armadio di legno. Era traballante per la vecchiaia. Horton ebbe l’impressione che, se l’avesse urtato, si sarebbe sfasciato. Gli sportelli erano tenuti chiusi da bottoni lignei. Accanto all’armadio c’era una panca a quattro gambe, con il piano incrinato da larghe crepe. E sopra c’era un oggetto di ceramica… una brocca per l’acqua, forse, con l’orlo sbrecciato cui mancava un pezzo triangolare. All’estremità opposta del banco c’era un vaso, sembrava. Non era di ceramica. Pareva vetro, ma lo strato di polvere finissima che copriva tutto impediva di stabilirlo con certezza. Accanto al banco c’era quella che doveva essere una sedia. Aveva quattro gambe, un sedile, una spalliera inclinata. Appeso ad uno dei sostegni della spalliera c’era un pezzo di stoffa che forse era stato un cappello. Sul pavimento, davanti alla sedia, stava un piatto… un ovale di ceramica bianca, e sul piatto, un osso.