Qualcosa, si disse Horton, si era seduto lì — quanti anni prima? — con un piatto in grembo, mangiando un pezzo di carne, tenendolo fra le mani, o quello che aveva al posto delle mani, rosicchiando l’osso, con la brocca dell’acqua lì vicino, anche se forse non era stata acqua ma vino. E dopo aver finito, o almeno dopo aver mangiato a sazietà, aveva deposto il piatto sul pavimento, e magari si era appoggiato alla spalliera, battendosi soddisfatto sul ventre. Aveva posato il piatto con l’osso sul pavimento, ma non era mai tornato a raccoglierlo. Nessuno era mai tornato a raccoglierlo.
Rimase ritto, affascinato, a guardare il banco, la sedia, il piatto. L’alienità sembrava essere svanita, in parte, perché quella scena era tolta al passato di un popolo che, indipendentemente dalla forma, aveva alcuni elementi di una comune umanità forse estesa in tutto l’universo. Uno spuntino notturno, forse… e che cos’era accaduto, dopo?
La sedia per sedere, il banco per posarvi la brocca, il piatto per tenervi la carne… e il vaso, il vaso? Aveva un corpo globulare, il collo lungo, e la base ampia. Sembrava più una bottiglia che un vaso, pensò.
Si mosse, e tese la mano per prenderla, e involontariamente sfiorò il cappello, se era un cappello, appeso alla sedia. Al suo tocco, si disintegrò. Scomparve in un piccolo sbuffo di fumo che fluttuò nell’aria.
Afferrò il vaso, o la bottiglia, lo sollevò, e vide che sul corpo globulare erano incise figure e simboli. Tenendolo per il collo l’avvicinò agli occhi, per vedere la decorazione.
Uno strano essere stava dentro un riquadro dal tetto appuntito e sovrastato da una piccola sfera. Sembrava, pensò Horton, che stesse dentro a un barattolo da tè. E l’essere… era umanoide, oppure semplicemente un animale ritto su due sottili zampe posteriori? Aveva un solo braccio, e una lunga coda che s’innalzava angolarmente, rispetto al corpo. La testa era un grumo indistinto, ma sei linee rette si estendevano da essa verso l’alto e verso l’esterno: tre a sinistra, due a destra ed uno direttamente verso l’alto.
Quando fece ruotare la bottiglia (o il vaso), vide altre incisioni… linee orizzontali disposte entro due linee, una sopra l’altra, e collegate tra loro da tratti verticali. Forse edifici, si chiese, con le linee verticali che rappresentavano le colonne di sostegno del tetto? C’erano molti sgorbi e ovali storti e segni irregolari, in brevi file, che potevano essere parole di una lingua sconosciuta. E quella che poteva essere una torre, dalla cui sommità emergevano tre figure, simili a volpi uscite da qualche antica leggenda terrestre.
Fuori, dal sentiero, Carnivoro lo stava chiamando. «Horton, tutto bene?»
«Tutto bene.»
«Sono in pensiero per te,» disse Carnivoro. «Perché non esci, ti prego? Mi fai diventare nervoso, a stare lì.»
«D’accordo,» disse Horton. «Se ti fa diventare nervoso.»
Si girò e varcò la porta, tenendo la bottiglia.
«Hai trovato un ricettacolo interessante,» disse Carnivoro, adocchiandola con una certa apprensione.
«Sì, guarda.» Horton alzò la bottiglia, girandola lentamente. «Rappresentazioni di esseri viventi, anche se non saprei dire esattamente che cosa sono.»
«Shakespeare ne aveva trovato un paio simili. Anche quelle avevano segni, ma non esattamente come la tua. E anche lui si chiedeva cosa fossero.»
«Potrebbero rappresentare coloro che vivevano qui.»
«Shakespeare diceva lo stesso, ma precisava che erano solo miti del popolo che viveva qui. Spiega che i miti sono memorie razziali, cose che il ricordo, spesso imperfetto, dice che sono avvenute nel passato.» Si agitò, nervosamente. «Torniamo indietro,» propose. «Il mio stomaco brontola per reclamare nutrimento.»
«Anche il mio,» disse Horton.
«Io ho della carne. Uccisa solo ieri. Vuoi farmi compagnia?»
«Con piacere,» disse Horton. «Io ho le razioni, ma non sono buone come la carne.»
«La carne non è ancora troppo frolla,» disse Carnivoro. «Ma domani uccido ancora. Mi piace la carne fresca. La mangio frolla solo se non c’è altro. Immagino che tu metti la carne sul fuoco, come faceva Shakespeare.»
«Sì, mi piace cotta.»
«C’è legna secca in abbondanza per il fuoco. È ammucchiata davanti alla casa. E c’è anche un focolare. Immagino che tu lo hai visto.»
«Sì, ho visto il focolare.»
«Quell’altro. Anche lui mangia carne?»
«Non mangia niente.»
«Incredibile,» disse Carnivoro. «Come fa a conservare le forze?»
«Ha quella che si chiama una batteria. Gli fornisce un nutrimento di tipo diverso.»
«Pensi che Nicodemus non riesca subito a riparare il tunnel? Prima, mi è sembrato che dicevi proprio così.»
«Penso che forse ci vorrà un po’ di tempo,» disse Horton. «Lui non ha idea di cosa si tratti e nessuno di noi può aiutarlo.»
Ripercorsero il sentiero tortuoso.
«Cos’è quest’odore?» chiese Horton. «Sembra qualcosa di morto, o peggio.»
«È lo stagno,» disse Carnivoro. «Devi avere notato lo stagno.»
«L’ho visto quando siamo venuti qui.»
«Puzza abominevolmente,» disse Carnivoro. «Shakespeare lo chiama Stagno Fetido.»
12.
Horton si accosciò davanti al fuoco, per sorvegliare il pezzo di carne che arrostiva sui carboni. Carnivoro sedeva di fronte a lui, e dilaniava con i denti il pezzo crudo che stringeva fra i tentacoli. Il sangue gli macchiava il muso, gli scorreva dalle mascelle.
«Non ti dispiace?» chiese. «Il mio stomaco invoca prepotentemente di essere riempito.»
«Fai pure,» disse Horton. «La mia parte sarà pronta fra un minuto.»
Il sole del tardo pomeriggio gli scaldava la schiena. Il calore del fuoco gli investiva il volto. Si accorse di provare una sorta di esultanza. Il fuoco era di fronte all’edificio niveo, e il teschio di Shakespeare pareva guardarli sogghignando. Nel silenzio si udiva il ciangottio del ruscello che scendeva dalla sorgente.
«Quando abbiamo finito,» disse Carnivoro, «ti mostro la roba dello Shakespeare. Ho messo tutto in ordine nei sacchi. Ti interessa?»
«Sì, certo,» disse Horton.
«Sotto molti aspetti,» disse Carnivoro, «lo Shakespeare era un umano esasperante, sebbene io gli voglio bene. In verità non ho mai saputo se gli ero simpatico o no, ma credo di sì. Andavamo d’accordo. Lavoriamo molto bene insieme. Parliamo molto. Ci diciamo tante cose. Ma non riesco mai a cancellare l’impressione che mi prendeva in giro, anche se non capisco perché lo faceva. Mi trovi buffo, Horton?»
«No, affatto,» rispose Horton. «Devi averlo immaginato.»
«Vuoi dirmi cosa significa maledetto? Lo Shakespeare lo diceva spesso e io prendo l’abitudine da lui. Ma non ho mai saputo cosa significa. Lo chiedo a lui e lui non voleva dirlo. E ride di me, segretamente.»
«Non ha un vero significato. Normalmente, voglio dire. Lo si usa per enfasi, senza una vera intenzione. È solo un modo di dire. Molti non lo usano, d’abitudine. Solo certuni lo fanno. Altri l’usano di rado, e solo in caso di provocazione emotiva.»
«Allora non significa niente. Solo un modo di dire.»
«Infatti,» disse Horton.
«Quando io parlo di magia, lui la chiama maledetta sciocchezza. Allora non vuol dire sciocchezza particolare.»
«No, voleva dire sciocchezza e basta.»