Carnivoro scosse il capo. «Strane abitudini,» disse. «Voi umani siete strani affari. Lo Shakespeare, strano. Rideva sempre di me. Non apertamente, dentro. Io gli voglio bene, ma lui ride. Ride per essere più di me. Ride in segreto, ma mi fa capire che ride.»
Andò in un angolo e prese un sacco confezionato di pelle animale. Lo sollevò con un pugno e lo scosse: ne uscì un fruscio secco, uno struscio.
«Le sue ossa,» gridò. «Adesso ride solo con le ossa. Anche le ossa ridono ancora. Ascolta e le sentirai.»
Scosse rabbiosamente il sacco. «Non senti ridere?»
L’ora di Dio venne.
Era ancora mostruosa. Nonostante le spesse mura di pietra ed il soffitto, la sua forza non era molto attenuata. Ancora una volta, Horton si sentì afferrare, spogliare e squarciare ed esplorare; e questa volta, gli parve, non veniva soltanto esplorato, ma anche assorbito; mentre lottava per restare se stesso, sentì che diveniva una sola cosa con ciò che l’aveva afferrato. Si sentì fondere in esso, diventarne parte, e quando comprese che era impossibile opporsi alla fusione, nonostante l’umiliazione che gli dava l’essere reso parte di qualcosa d’altro, cercò di sondare a sua volta, di scoprire ciò che s’impadroniva di lui. Per un istante, credette di capirlo: per un istante fuggevole, la cosa da cui era stato assorbito, la cosa che lui era diventato, parve protendersi per abbracciare l’universo, tutto ciò che era stato ed era e sarebbe stato in futuro, mostrandolo, mostrandogliene la logica, o l’illogicità, lo scopo, la ragione ed il fine. Ma in quell’istante, la sua mente umana si ribellò all’implicazione della conoscenza, sbigottita e indignata al pensiero che potesse esservi una cosa simile, che fosse possibile rivelare l’universo e conoscerlo. La sua mente ed il suo corpo si ritrassero: preferivano non sapere.
Non aveva modo di calcolare per quanto durò. Era inerte in quella stretta, che pareva assorbire non soltanto lui ma anche il suo senso del tempo… come se potesse manipolare il tempo a modo suo e per i suoi fini; e Horton provò la sensazione fuggevole che, se poteva far questo, nulla era in grado di opporsi, perché il tempo era il fattore più elusivo dell’universo.
Poi finì, e Horton si stupì nel trovarsi accovacciato sul pavimento, con le braccia levate per coprirsi la testa. Sentì che Nicodemus lo sollevava, lo rimetteva in piedi e lo sosteneva. Infuriato della propria impotenza, scostò di scatto le mani del robot e si diresse barcollando verso il grande tavolo di pietra, vi si aggrappò disperatamente.
«È stato ancora brutto,» disse Nicodemus.
Horton scrollò il capo, cercando di schiarirsi il cervello. «Brutto,» disse. «Come l’altra volta. E tu?»
«Lo stesso, come prima,» disse Nicodemus. «Un colpo mentale di striscio, tutto lì. Si impone molto più brutalmente ad un cervello biologico.»
Come attraverso una nebbia, Horton sentì Carnivoro declamare «Qualcosa, lassù,» stava dicendo, «sembra si interessi a noi.»
13.
Horton aprì il libro al frontespizio. Accanto a lui la rozza candela sgocciolava e fumava, gettando una luce ondeggiante e incerta. Si piegò per leggere. I caratteri tipografici erano strani, le parole sembravano sbagliate.
«Che cos’è?» chiese Nicodemus.
«Credo sia Shakespeare,» rispose Horton. «Che altro potrebbe essere? Ma l’ortografia è diversa. Abbreviazioni strane. E certe lettere sono sbagliate. Sì, guarda… dovrebbe essere così. Opere complete di William Shakespeare. Io lo leggo così. Sei d’accordo con me?»
«Ma non c’è la data di pubblicazione,» disse Nicodemus, sporgendosi sopra la spalla di Horton.
«È posteriore al nostro tempo, immagino,» disse questi. «La lingua e l’ortografia cambiano, con gli anni. Non c’è la data, ma è stato pubblicato a… riesci a capire questa parola?»
Nicodemus si chinò ancora di più. «Londra. No, non è Londra. Un altro posto. Un posto che non ho mai sentito nominare. Forse non è neppure sulla Terra.»
«Bene, almeno sappiamo che è Shakespeare,» disse Horton. «Ecco da cosa deriva il suo nome. Era uno scherzo.»
Carnivoro ringhiò, dall’altra parte del tavolo. «Lo Shakespeare scherza sempre.»
Horton voltò pagina, e ne trovò una bianca, riempita da una grafia minuta, a matita. Si chinò, cercando di decifrarla. Erano la stessa ortografia strana e la stessa strana sintassi che aveva trovato nel frontespizio. Tortuosamente, lesse le prime righe, traducendole, quasi fossero in una lingua straniera:
Se leggi questo, probabilmente ti sei imbattuto in quel grosso mostro di Carnivoro. In tal caso, non fidarti neppure per un istante di quel miserabile figlio di vacca. So che ha intenzione di uccidermi, ma sarò io a ridere per ultimo. Sarà facile, per chi sa che sta per morire comunque. L’inibitore che avevo portato con me ormai è quasi finito, e quando non ne avrò più, il tumore maligno continuerà a divorarmi il cervello. E sono convinto che, prima dell’inizio dei dolori più atroci, sarebbe una morte più facile lasciare che questo mostro bavoso mi uccida, piuttosto che finire tra le sofferenze…
«Cosa dice?» chiese Nicodemus.
«Non ne sono sicuro,» rispose Horton. «È piuttosto difficile.»
Spinse da parte il volume.
«Lui parlava al libro,» disse Carnivoro. «Con il suo bastoncino magico. Non mi spiega mai cosa diceva. Neanche tu puoi dirmelo?»
Horton scosse il capo.
«Eppure devi essere capace,» insistette Carnivoro. «Sei umano come lui. Uno deve sapere quello che l’altro dice con i segni del bastoncino.»
«C’è il fattore tempo,» disse Horton. «Noi abbiamo viaggiato almeno mille anni, per arrivare qui. Forse molto più di un millennio. E in mille anni, possono esserci molti cambiamenti nei segni tracciati con i bastoncini. Inoltre, il suo modo di tracciare i simboli non è dei migliori. Scrive con mano tremante.»
«Tenterai ancora? Grande curiosità di sapere cosa dice lo Shakespeare, soprattutto cosa dice di me.»
«Continuerò a tentare,» disse Horton.
Tirò di nuovo il volume davanti a sé.
…finire tra le sofferenze. Lui finge una grande amicizia per me, e recita così bene la parte che occorre un considerevole sforzo analitico per discernere il vero atteggiamento. Per arrivare a capirlo, prima bisogna scoprire che cos’è, e acquisire una certa conoscenza della sua cultura e delle sue motivazioni. Solo poco a poco mi sono reso conto che è veramente ciò che sembra, ciò che si vanta di essere… non solo un carnivoro incallito, ma anche un predatore. Per lui, uccidere non è soltanto un modo di vivere: è una passione ed una religione. Non soltanto lui: tutta la sua cultura è basata sull’arte di uccidere. Poco a poco, grazie all’intuizione acquisita vivendo con lui, sono riuscito a ricostruire la storia della sua vita e della sua cultura. Se lo chiedi a lui, immagino che ti risponderà, orgogliosamente, di appartenere a una razza guerriera. Ma questo non dice tutto. Nella sua razza, è un essere eccezionale, forse un eroe leggendario… o almeno in procinto di diventarlo. La sua professione, come l’intendo io (e sono sicuro di non sbagliare) consiste nel viaggiare da un mondo all’altro; e su ciascuno sfida ed uccide gli esemplari delle specie più tremende che vi si sono evolute. Come i leggendari indiani nordamericani della Vecchia Terra, conta un punto simbolico per ogni avversario che uccide e, secondo la mia impressione, ormai è uno dei primi nell’intera storia della sua razza ed aspira a diventare il campione di tutti i tempi, il più grande uccisore di tutti. Non so bene che cosa ne ricaverà, ma posso formulare qualche ipotesi… forse l’immortalità nella memoria razziale, l’apoteosi eterna nel suo pantheon tribale…
«Allora?» chiese Carnivoro.
«Sì?»
«Adesso il libro ti parla. Vedo che muovi il dito, riga per riga.»