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«Niente,» disse Horton. «Proprio niente. Quasi tutti incantesimi e preghiere.»

«Lo sapevo,» gracchiò Carnivoro. «Lo sapevo. Lui dice che la mia magia è una maledetta sciocchezza, ma pratica la sua. Non parla di me? Sicuro che non parla di me?»

«Non ancora. Forse un po’ più avanti.»

Ma su questo pianeta abominevole, adesso, è prigioniero come me. Come me, è escluso dagli altri mondi in cui potrebbe cercare e combattere e uccidere, a gloria eterna della sua razza, gli esseri più poderosi che potrebbe scovare. Di conseguenza, sono sicuro di poter captare, nella sua mentalità di grande guerriero, una disperazione crescente, e sono sicuro che verrà il momento in cui, dopo aver perduto ogni speranza di raggiungere altri mondi, farà di me l’ultimo nome nell’elenco delle sue vittorie, anche se, Dio lo sa, uccidermi non gli farebbe un grande onore, perché gli sono irrimediabilmente inferiore. Indirettamente, ho fatto del mio meglio per convincerlo, con sottigliezza insinuante, che sarei un avversario fragile e debole. Nella mia debolezza, avevo pensato, sta la mia sola speranza. Ma adesso mi accorgo di essermi ingannato. Vedo la follia e la disperazione crescere in lui. Se continua così, so che un giorno mi ucciderà. Nel momento in cui la sua follia mi farà apparire come un avversario degno di lui, si avventerà su di me. Non so cosa ci guadagnerà. Sembrerebbe che non ci sia ragione di uccidere, quando gli altri membri della sua razza non possono saperlo. Ma, non so bene da che cosa, ho ricavato l’impressione che anche se è in questa situazione, perduto tra le stelle, l’uccisione verrebbe conosciuta e celebrata dalla sua razza. Per me è incomprensibile, e ho rinunciato a tentare di capire.

Lui siede al tavolo di fronte a me, mentre scrivo, e vedo che mi sta misurando: sa benissimo, naturalmente, che non sono un soggetto adeguato per il suo modello d’uccisione rituale, ma cerca di convincersi del contrario. Un giorno o l’altro si convincerà, e sarà fatta. Ma io posso batterlo a mani basse. Ho un asso nella manica. Lui non sa che ho dentro la morte, e che mi resta poco tempo. Sarò maturo per morire prima che lui sia pronto ad uccidere. E poiché è un cafone sentimentale — tutti gli uccisori lo sono — lo indurrò ad uccidermi, per una missione sacerdotale, che gli chiederò di compiere nel momento del bisogno supremo, perché è l’unico che può compiere questo gesto di altissima pietà. E così otterrò due cose: mi servirò di lui per abbreviare la sofferenza finale che so inevitabile, e lo defrauderò dell’uccisione finale, perché un’uccisione compiuta per pietà non conterà, per lui. Non potrà segnare un punto grazie a me. Sarò io, invece, a segnare un punto grazie a lui. E quando mi ucciderà, per pietà, io gli riderò in faccia. Perché il riso è la vittoria finale. L’uccisione per lui, il riso per me. Questa è la misura, tra noi.

Horton alzò la testa e tacque, stordito. Quell’uomo era pazzo, si disse. Una follia fredda, gelida, glaciale, molto peggiore della pazzia delirante. Non la semplice follia della mente, ma la follia dell’anima.

«Dunque,» fece Carnivoro, «parla finalmente di me.»

«Sì. Dice che sei un cafone sentimentale.»

«Non mi sembra un grande elogio.»

«È un’espressione di grande affetto,» disse Horton.

«Ne sei sicuro?» chiese Carnivoro.

«Sicurissimo,» disse Horton.

«Allora lo Shakespeare mi voleva bene davvero.»

«Ne sono certo,» disse Horton.

Tornò ad abbassare lo sguardo sul libro, sfogliandolo. Riccardo III. La commedia degli errori. La bisbetica domata. Re Giovanni. La notte dell’Epifania. Otello. Re Lear. Amleto. C’erano tutti. E scarabocchiati ai margini, inseriti negli spazi bianchi parziali, dove finiva una tragedia o una commedia, c’erano quegli appunti minuti.

«Gli parlava moltissimo,» disse Carnivoro. «Quasi tutte le sere. Qualche volta anche nei giorni di pioggia, quando restavamo al coperto.»

Tutto è bene quél che finisce bene, pagina 1038, scarabocchiato sul margine sinistro:

Oggi lo stagno puzza più del solito. È un odore malvagio. Non un cattivo odore, semplicemente: un odore malvagio. Come fosse vivo ed essudasse il male. Come se nelle sua profondità si nascondesse qualcosa di osceno.

Re Lear, pagina 1143, questa volta sul margine destro:

Ho trovato degli smeraldi, dissepolti dalle intemperie su un costone, circa un chilometro e mezzo sotto la fonte. Stavano lì, in attesa di essere raccattati. Me ne sono riempite le tasche. Non so perché mi sono preso questo disturbo. Eccomi qui: sono ricco, e non ha la minima importanza…

Macbeth, pagina 1207, margine in fondo:

C’è qualcosa nelle case. Qualcosa da trovare. Un enigma da risolvere. Non so cosa sia, ma sento che c’è…

Pericle, pagina 1381, nella metà inferiore della pagina, dopo la fine del testo:

Siamo tutti perduti nell’immensità dell’universo. Abbiamo perduto la patria, e non abbiamo un posto dove andare: o peggio, ne abbiamo troppi. Siamo perduti non soltanto nelle profondità del nostro universo, ma anche nell’abisso delle nostre menti. Quando gli uomini vivevano su un solo pianeta, sapevano dov’erano. Avevano metri di legno per misurare, e i pollici per sentire da che parte tirava il vento. Ma adesso, anche quando crediamo di sapere dove siamo, siamo egualmente perduti: perché non c’è una strada per riportarci a casa, oppure, molto spesso, non abbiamo una casa cui valga la pena di ritornare.

Non ha importanza dove può essere la casa; oggi gli uomini, almeno intellettualmente, sono vagabondi. Anche se chiamiamo «patria» un pianeta, persino i pochi che possono chiamare patria la Terra, la patria non esiste più. La razza umana è ormai frammentata tra le stelle, e continua la sua diaspora nello spazio. Come razza, siamo intolleranti nei confronti del passato; molti lo sono nei confronti del presente, ed abbiamo un’unica direzione, verso il futuro, che ci porta sempre più lontani dal concetto di patria. Come razza, siamo vagabondi inguaribili, e non vogliamo nulla che ci leghi, nulla cui aggrapparci… fino al giorno che deve venire inevitabilmente per ognuno di noi, quando ci rendiamo conto di non essere liberi come crediamo, e siamo invece perduti. Solo quando cerchiamo di ricordare, per mezzo della memoria razziale, dove siamo stati e perché ci siamo stati, comprendiamo fino a che punto siamo perduti.

Su un pianeta, o anche in un unico sistema solare, potevamo orientarci verso il centro psicologico dell’universo. Perché allora avevamo valori, che adesso riconosciamo limitati: ma almeno fornivano una struttura umana entro la quale ci muovevamo e vivevamo. Ormai la struttura si è schiantata, e i nostri valori sono stati disgregati tante volte dai mondi diversi su cui ci siamo recati (perché ogni mondo nuovo ci dà nuovi valori, o abolisce alcuni dei vecchi, cui stavamo aggrappati) che non abbiamo più una base su cui fondare il nostro giudizio. Non abbiamo più una scala di valori concordata per misurare le perdite e le aspirazioni. Anche l’infinito e l’eternità sono divenuti concetti diversi, sotto molti aspetti fondamentali. Un tempo ci servivamo della scienza per strutturare il luogo dove vivevamo, per conferirgli forma e ragione; adesso siamo confusi, perché abbiamo imparato tanto (e tuttavia una minima parte di quanto c’è da imparare) che non riusciamo ad inquadrare i punti di vista scientifici dell’umanità nell’universo quale lo vediamo ora. Adesso ci poniamo più domande di prima, ed abbiamo meno probabilità di trovare le risposte. Forse eravamo provinciali; questo nessuno lo nega. Ma molti di noi debbono rendersi conto che nel provincialismo trovavamo un conforto ed un certo senso di sicurezza. Tutta la vita è inquadrata in un ambiente assai più ampio della vita stessa: ma in qualche milione d’anni qualunque specie può acquisire familiarità con il suo ambiente, e viverci bene. Noi, invece, abbandonando la Terra, spregiando il nostro pianeta natale per cercare stelle più fulgide e più lontane, abbiamo ampliato in modo enorme il nostro ambiente, e non abbiamo a disposizione milioni d’anni: nella nostra fretta, non abbiamo più tempo.