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«Preparerò la colazione,» disse Nicodemus. «Ha appetito, signora?»

«Una fame tremenda,» disse lei.

«Abbiamo carne,» disse Carnivoro, «sebbene non uccisa di fresco. Mi affretto a darti il benvenuto nel nostro piccolo accampamento. Io sono Carnivoro.»

«Ma un carnivoro è una cosa,» obiettò la donna. «Una classificazione. Non un nome.»

«È un carnivoro, e se ne vanta,» disse Horton. «E si chiama così.»

«Mi ha chiamato così Shakespeare,» disse Carnivoro. «Io ho un altro nome, ma non ha importanza.»

«Io mi chiamo Elayne,» disse la donna. «E sono lieta di conoscervi.»

«Io mi chiamo Horton. Carter Horton. Puoi chiamarmi con un nome o con l’altro, o con tutti e due.»

Uscì dal sacco a pelo e si alzò in piedi.

«Carnivoro ha detto ‘carne’,» fece Elayne. «Diceva sul serio?»

«Sicuro,» disse Horton.

Carnivoro si batté il petto. «La carne fa bene,» disse, «Dà sangue e ossa. E tono ai muscoli.»

La donna rabbrividì, delicatamente. «Avete solo la carne?»

«Potremmo combinare qualcosa d’altro,» disse Horton. «I viveri che avevamo con noi. Quasi tutti disidratati. Non hanno un sapore ideale.»

«Oh, al diavolo,» disse Elayne. «Mangerò la carne con voi. È solo il pregiudizio che mi ha impedito di assaggiarla in tutti questi anni.»

Nicodemus, che poco prima era entrato nella casa di Shakespeare, ne uscì, tenendo un coltello in una mano e nell’altra un grosso pezzo di carne. Ne tagliò una robusta fetta e la porse a Carnivoro. Carnivoro si accoccolò sui talloni e cominciò a dilaniarla, mentre il sangue gli scorreva sul muso.

Horton vide l’espressione d’orrore sul viso della donna. «La nostra la faremo cuocere,» disse. Andò a un mucchio di legna da ardere e sedette, indicando il posto accanto a lui. «Vieni a farmi compagnia,» aggiunse. «Nicodemus cucinerà. Ci vorrà un po’.» Poi, a Nicodemus: «La sua bistecca falla ben cotta. La mia al sangue.»

«Prima metterò a cuocere quella della signora,» disse Nicodemus.

Esitando, Elayne si avvicinò al mucchio di legna e sedette accanto a Horton.

«Questa,» disse, «è la situazione più. strana che abbia mai incontrato. Un uomo e il suo robot che parlano la lingua antica. Un carnivoro che la parla quasi altrettanto bene, e un teschio umano inchiodato sopra una porta. Voi due dovete provenire dai pianeti arretrati.»

«No,» disse Horton. «Veniamo direttamente dalla Terra.»

«Ma non è possibile,» disse Elayne. «Ormai nessuno viene più direttamente dalla Terra. E dubito che anche là non parlino più la lingua antica.»

«Ma noi sì. Abbiamo lasciato la Terra nell’anno…»

«Nessuno ha lasciato la Terra da più di un millennio,» disse Elayne. «La Terra, ormai, non ha una base per i lunghi viaggi. Senti, a che velocità andavate?»

«Quasi alla velocità della luce. Con qualche sosta qua e là.»

«E tu? Eri ibernato?»

«Certo. Ero ibernato.»

«Quasi alla velocità della luce,» disse lei. «È impossibile fare un calcolo. So che c’erano calcoli matematici primitivi, ma erano approssimazioni grossolane, e la razza umana non ha viaggiato alla velocità della luce per un periodo abbastanza lungo per determinare esattamente l’effetto della dilatazione del tempo. Furono lanciate solo poche navi interstellari che volavano alla velocità della luce, o un po’ meno, e ne sono ritornate pochissime. E prima che tornassero, erano stati scoperti sistemi migliori per viaggiare; nel frattempo, la Vecchia Terra era precipitata in una situazione economica catastrofica, e c’era la guerra… non un conflitto generale, ma molte piccole guerre. La civiltà terrestre andò virtualmente distrutta. La Vecchia Terra c’è ancora. La popolazione rimasta forse sta risalendo la china. Sembra che nessuno lo sappia, e per la verità non importa a nessuno. Nessuno torna mai alla Vecchia Terra. Mi accorgo che tu non sai niente di tutto questo.»

Horton scosse il capo. «Niente.»

«Quindi eri a bordo di una delle prime navi che volavano alla velocità della luce.»

«Una delle prime,» disse Horton. «Nel 2455. O giù di lì. Forse all’inizio del secolo ventesimosesto. Non lo so, esattamente. Ci ibernarono; poi ci fu un ritardo.»

«Vi misero in aspettativa.»

«Immagino che si possa dire così.»

«Noi non ne siamo assolutamente sicuri,» disse Elayne, «ma pensiamo che sia l’anno 4784. In realtà, non si può esserne certi. La storia si è confusa. La storia umana, cioè. Vi sono molte altre storie, oltre quella terrestre. Vi fu un periodo di confusione, un’epoca della corsa allo spazio. Quando ci fu un sistema ragionevole per andare nello spazio, nessuno di quelli che potevano permettersi di andare decise di restare sulla Terra. Non occorreva un grande acume analitico per capire cosa stava succedendo alla Terra. Nessuno voleva trovarsi nella morsa. Per moltissimi anni non vi furono troppe documentazioni. Quelle che esistevano forse erano errate; altre andarono perdute. Come puoi immaginare, la razza umana attraversò una crisi dopo l’altra. Non solo sulla Terra, ma anche nello spazio. Non tutte le colonie sopravvissero. Alcune ci riuscirono, ma poi per una ragione o per l’altra non poterono stabilire contatti con le altre, e furono considerate perdute. Alcune sono perdute tuttora… perdute o estinte. Gli umani si avventuravano nello spazio in tutte le direzioni… molti non avevano neppure un piano preciso, speravano che con l’andar del tempo avrebbero trovato un pianeta dove stabilirsi. Non si avventuravano soltanto nello spazio, ma anche nel tempo, e nessuno capiva i fattori temporali. Ancora oggi non li comprendiamo. In condizioni simili, era facile guadagnare o perdere un secolo o due, nel conteggio. Quindi non chiedermi di giurarti che anno è. E la storia. È anche peggio. Noi non abbiamo una storia: abbiamo leggende. Una parte delle leggende, probabilmente, è storia, ma non possiamo sapere che cosa sia storico e che cosa non lo è.»

«E sei venuta qui attraverso il tunnel?»

«Sì. Faccio parte d’una squadra che traccia le mappe dei tunnel.»

Horton guardò Nicodemus, che stava accosciato accanto al fuoco e sorvegliava la cottura delle bistecche. «Glielo hai detto?» chiese Horton.

«Non ne ho avuto la possibilità,» disse Nicodemus. «Non me ne ha data l’occasione. Era così emozionata nel sentirmi parlare quella che lei chiama la lingua antica.»

«Dirmi che cosa?» chiese Elayne.

«Il tunnel è chiuso. Non funziona.»

«Ma mi ha portata qui.»

«Ti ha portata qui. Non ti riporterà indietro. È guasto. Funziona in un’unica direzione.»

«Ma è impossibile. C’è il quadro dei comandi.»

«Lo so che c’è il quadro dei comandi,» le disse Nicodemus. «Ci sto lavorando. Cerco di ripararlo.»

«E come te la cavi?»

«Non troppo bene,» disse Nicodemus.

«Siamo prigionieri,» disse Carnivoro, «a meno che quel maledetto tunnel viene riparato.»

«Forse posso aiutarvi,» disse Elayne.

«Se puoi,» disse Carnivoro, «t’imploro di fare del tuo meglio. Avevo la speranza che, se il tunnel non viene riparato, potevo andare con la nave insieme a Horton e al robot, ma ci penso sopra e non mi sembra così. Quel sonno di cui parlate, quell’ibernazione mi spaventa. Non voglio essere congelato.»

«Ce ne siamo preoccupati,» gli disse Horton. «Nicodemus se ne intende, d’ibernazione. Ha un transmog da tecnico specialista. Ma lui sa solo ibernare gli umani. Tu potresti essere diverso, avere una chimica organica differente. E non possiamo accertare quale sia.»

«Dunque è escluso,» disse Carnivoro. «Dunque bisogna riparare il tunnel.»

Horton disse ad Elayne: «Non mi sembri troppo sconvolta.»

«Oh, credo di esserlo,» disse lei. «Ma la mia gente non lotta contro il destino. Accettiamo la vita come viene. Il bene e il male. Sappiamo che c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.»