Le pareti metalliche salivano, ai suoi fianchi, e s’incurvavano, una trentina di centimetri sopra la sua testa, formando una volta. Congegni dall’aspetto strano erano ritratti entro intercapedini sul soffitto, proprio al di sopra del suo capo. Nel vederli, la memoria prese a rifluire, portando con sé un senso di freddo. Vi pensò, e non riuscì a ricordare un freddo autentico, sebbene la sensazione fosse presente. E quando il ricordo del freddo si protendeva a sfiorarlo, provava una fitta di apprensione.
Ventilatori nascosti soffiavano aria calda sopra di lui: allora comprese il tepore. Stava comodo, notò, perché giaceva su un materasso spesso e soffice piazzato sul fondo del cubicolo. Un cubicolo, pensò… anche le parole, la terminologia cominciavano a ritornare. Gli strani congegni inseriti nelle intercapedini nel soffitto facevano parte del sistema di supporto, ed erano lì, lo sapeva, perché non ne aveva più bisogno. E non ne aveva più bisogno, pensò, perché Nave era atterrata.
Nave era atterrata, e lui era stato destato dall’ibernazione… il suo corpo era stato scongelato, le sostanze della rianimazione gli erano state iniettate nel sangue, dosi meticolosamente misurate di sostanze nutrienti ad alta energia erano state immesse in lui, ed era stato massaggiato e riscaldato e riportato in vita. Era vivo, se prima era morto. Ricordò le interminabili discussioni su quel problema, quando l’avevano esaminato e rimuginato e sventrato e fatto a pezzi, per poi cercare di ricomporre meticolosamente i frammenti. La chiamavano ibernazione, sicuro… era logico che la chiamassero così, perché aveva un suono facile, rassicurante. Ma era sonno o morte? Ci si addormentava e ci si risvegliava? Oppure si moriva e risuscitava?
Ormai non aveva molta importanza, pensò Horton. Morto o dormiente, adesso era vivo. Mi venga un colpo, si disse, il sistema ha funzionato davvero… e per la prima volta comprese di avere avuto dubbi sul funzionamento, nonostante tutti gli esperimenti compiuti con i topi ed i cani e le scimmie. Eppure, ricordava, non aveva mai parlato dei dubbi, li aveva nascosti non soltanto agli altri, ma anche a se stesso.
E se lui era lì, vivo, dovevano esserlo anche gli altri. Tra qualche minuto sarebbe uscito dal cubicolo e gli altri sarebbero stati lì: riuniti tutti e quattro. Gli pareva soltanto ieri, quand’erano tutti insieme… come se avessero trascorso la serata in compagnia e adesso, dopo una breve notte di sonno, si fossero svegliati, senza avere sognato. Eppure sapeva che doveva essere trascorso un tempo assai più lungo… magari un secolo.
Girò a lato la testa e vide il portello, con l’oblò di vetro pesante. Oltre il vetro scorgeva la piccola sala, con i quattro armadietti allineati alle pareti. Non c’era nessuno… e quindi gli altri, si disse, erano ancora nei cubicoli. Pensò di gridare per chiamarli, ma poi cambiò idea. Sarebbe stato indecoroso, pensò… troppo esuberante, un po’ troppo fanciullesco.
Tese la mano verso la serratura e la premette. Era un po’ irrigidita, alla fine si abbassò, ed il portello si aprì verso l’esterno. Piegò le gambe per infilarle attraverso l’apertura, a fatica, perché c’era poco spazio. Ma alla fine le fece passare e, girandosi, si lasciò scivolare cautamente sul pavimento. Era gelido, sotto i suoi piedi, e il metallo del cubicolo era freddo.
Horton passò svelto ai cubicolo adiacente, scrutò attraverso il vetro del portello: vide che era vuoto, con gli apparecchi del sistema di supporto rientrati nelle intercapedini del soffitto. Anche gli altri due cubicoli erano vuoti. Restò immobile, inchiodato dall’orrore. Gli altri tre, una volta rianimati, non lo avrebbero abbandonato. Lo avrebbero atteso, per uscire tutti insieme. Si sarebbero comportati così, ne era convinto, a meno che fosse accaduto qualcosa d’imprevisto. E cosa poteva essere accaduto?
Helen lo avrebbe aspettato, ne era sicuro. Forse Mary e Tom se ne sarebbero andati, ma Helen lo avrebbe atteso.
Intimorito, si precipitò all’armadietto con il suo nome. Dovette tirare con forza la maniglia, dopo averla abbassata, per aprire lo sportello. Il vuoto, all’interno, oppose resistenza, e quando cedette, lo sportello si aprì con uno schiocco. Gli abiti erano appesi agli attaccapanni e le scarpe erano disposte in una fila ordinata. Afferrò un paio di calzoni e li indossò, infilò a forza i piedi in un paio di stivali. Quando aprì la porta della camera d’ibernazione, vide che la saletta era vuota e che il portello principale della nave era aperto. Horton corse là.
La rampa scendeva su una pianura erbosa che si estendeva verso sinistra, a destra si levavano colline tormentate, e più oltre una catena di monti poderosi, inazzurrati dalla distanza, che salivano verso il cielo. La pianura era deserta: c’era soltanto l’erba, che ondeggiava come un oceano investito da raffiche di vento. Le colline erano coperte d’alberi, dal fogliame nero e rosso. L’aria aveva un odore fresco e pungente. Non c’era nessuno in vista.
Scese la rampa fino a metà, e continuò a non vedere nessuno. Il pianeta era vuoto, e quel vuoto sembrava cercare di afferrarlo. Fece per gridare, per chiedere se c’era qualcuno, ma la paura e il vuoto inaridirono le parole, e Horton non riuscì a pronunciarle. Rabbrividì, rendendosi conto che era successo qualcosa d’imprevisto. Non era così che doveva essere.
Si girò, risalì in fretta la rampa, superò la camera stagna.
«Nave!» gridò. «Nave, cosa diavolo succede?»
Nave rispose, calma, imperturbata, nella sua mente: Qual è il problema, Carter Horton?
«Cosa succede?» gridò Horton, ormai più irritato che spaventato, incollerito dalla calma altezzosa del grande mostro, la Nave. «Dove sono tutti gli altri?»
Carter Horton, disse Nave, non vi sono altri.
«Come, non vi sono altri? Sulla Terra eravamo un gruppo.»
Ci sei soltanto tu, disse Nave.
«E degli altri, che ne è stato?»
Sono morti, disse Nave.
«Morti? Come, morti? Erano con me l’altro giorno!»
Erano con te, disse Nave, mille anni or sono.
«Sei pazza. Mille anni!»
È il tempo trascorso, disse Nave, continuando a parlare alla sua mente, da quando siamo partiti dalla Terra.
Horton udì un rumore alle sue spalle e si voltò di scatto. Un robot era uscito dal portello.
«Sono Nicodemus,» disse il robot.
Era un robot normalissimo, un robot casalingo, del tipo che sulla Terra avrebbe prestato servizio come maggiordomo o valletto, cuoco o fattorino. Non aveva la minima sofisticazione meccanica: era soltanto un catorcio qualunque, dai piedi piatti.
Non devi disprezzarlo così, disse Nave. Siamo sicuri che lo troverai molto efficiente.
«Sulla Terra…»
Sulla Terra, disse Nave, ti addestravi con un prodigio meccanico troppo delicato, che poteva gustarsi facilmente. Un congegno del genere non poteva venire inviato in una lunga spedizione. C’erano troppe probabilità che si guastasse. Ma in Nicodemus non c’è niente che possa rompersi. Data la sua semplicità, ha un alto valore di sopravvivenza.
«Mi dispiace,» disse Nicodemus a Horton, «di non essere stato presente quando ti sei svegliato. Ero uscito per una rapida ricognizione. Avevo pensato di avere tutto il tempo di tornare da te. A quanto sembra, le droghe per la rianimazione e il reorientamento hanno agito molto più rapidamente di quanto immaginassi. Di solito occorre abbastanza tempo per riprendersi dall’ibernazione. Soprattutto da un’ibernazione di durata tanto lunga. Come ti senti, adesso?»
«Confuso,» rispose Horton. «Completamente confuso. Nave mi dice che di umani sono rimasto soltanto io: e questo significa che gli altri sono morti. E ha parlato di mille anni…»