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«Allora voi premete i pulsanti alla cieca.»

«La nostra idea,» disse lei, «è che sebbene vi siano molti tunnel, e molte destinazioni per ogni tunnel, né gli uni né le altre possono essere infiniti. Se si viaggia per un tempo sufficiente, alla fine un tunnel dovrà riportarti in un posto dove sei già stato; e se annoti scrupolosamente il pulsante che hai premuto su ogni quadro di ogni tunnel che hai usato, e se si è in molti a farlo, e ciascuno lascia una comunicazione accanto ad ogni quadro prima di passare per un altro tunnel, in modo che quando un compagno passerà di lì… Non mi sono spiegata bene, ma puoi capire che, dopo molti tentativi, è possibile ricostruire, in qualche caso, il rapporto tra tunnel e quadro.»

Horton la guardò, dubbioso. «Mi sembra abbastanza improbabile. Finora, sei mai tornata in un posto dov’eri già stata?»

«Non ancora,» disse lei.

«In quanti siete? Nella tua squadra, voglio dire.»

«Non so bene. Continuano ad aggiungersi nuovi membri. È una cosa patriottica. Nella misura in cui, naturalmente, noi siamo patriottici. Sono sicura che la parola non ha più il significato di un tempo.»

«E come fai pervenire le informazioni alla base? Al quartier generale? A quelli cui devi inviarle, insomma? Cioè, se riesci a trovare qualche informazione.»

«Mi sembra che tu non abbia capito,» disse Elayne. «Alcuni di noi, forse molti… non tornano mai indietro, con o senza informazioni. Quando abbiamo accettato l’incarico, sapevamo di essere sacrificabili.»

«Parli come se non t’importasse molto.»

«Oh, ci importa, certo. Almeno a me. Ma è un lavoro fondamentale. Non capisci? È un onore, venire autorizzati a partecipare alla ricerca. Non può andare il primo che capita. Vi sono requisiti che è necessario possedere, per venire accettati.»

«Per esempio, non preoccuparsi di tornare indietro.»

«No,» disse Elayne. «Ma un senso del valore personale abbastanza forte da farti resistere dovunque, in qualunque situazione possa venire a trovarti. Non aver bisogno di essere in patria per essere te stesso. Essere autosufficienti. Non dipendere da un ambiente o da un rapporto specifico. Capisci?»

«Credo di cominciare a capire.»

«Se riuscissimo a realizzare una mappa dei tunnel, se potessimo accertare le relazioni che li collegano, si potrebbero usare in modo intelligente, senza bisogno di entrarvi alla cieca, come dobbiamo fare adesso.»

«Ma Carnivoro se ne è servito. E anche Shakespeare. Tu hai detto che si deve scegliere una destinazione, anche se non si sa quale sia.»

«Si possono usare i tunnel anche senza selezionare la destinazione. Ad eccezione del tunnel di questo pianeta, puoi semplicemente entrarvi, e andare dove ti portano. In questo caso, i tunnel sono veramente randomizzati. Secondo la nostra ipotesi, se non viene scelta una destinazione, vi è una casualità calcolata, prestabilita, in un certo senso. Tre individui, o magari anche cento, che usano un tunnel in questo modo, non arriveranno mai alla stessa destinazione. Noi riteniamo che fosse un sistema voluto, per scoraggiare l’uso dei tunnel da parte di individui non autorizzati.»

«E i loro costruttori?»

Elayne scosse il capo. «Nessuno ne sa niente. Né chi fossero, né da dove venissero, né come sono costruiti i tunnel. Non c’è nessuna indicazione dei principi basilari. Alcuni pensano che i costruttori esistano ancora, in qualche parte della galassia, e che una parte dei tunnel sia ancora in uso. Forse quelle che conosciamo noi sono soltanto porzioni abbandonate di un antico sistema di trasporto divenuti inutile. Come una strada abbandonata, che non viene più usata perché conduce in luoghi dove nessuno vuole più andare, dove non c’è più ragione di andare.»

«E niente indica che tipi di esseri fossero i costruttori?»

«Qualche indizio c’è,» disse lei. «Sappiamo che dovevano avere appendici simili a mani, con almeno tre dita, o comunque organi manipolatori equivalenti ad almeno tre dita. Sono necessari per azionare i quadri.»

«Nient’altro?»

«Qua e là,» disse Elayne, «ho trovato raffigurazioni. Dipinti, sculture, incisioni. Dentro vecchi edifici, sui muri, sul vasellame. Raffigurano molte specie di esseri viventi, ma si direbbe che una sia sempre presente.»

«Aspetta un momento,» disse Horton. Si alzò dal mucchio di legna ed entrò nella casa di Shakespeare, ne uscì portando la bottiglia che aveva trovato il giorno prima. Gliela porse.

«Come questa?» chiese.

Elayne fece girare lentamente la bottiglia, poi posò un dito su una figura. «È questa,» disse.

Aveva posato l’indice sull’essere che stava dentro il barattolo. «L’esecuzione è mediocre,» disse. «E l’angolazione è diversa. In altre raffigurazioni, il corpo si vede meglio, con più particolari. I cosi che spuntano dalla testa…»

«Somigliano alle antenne che i terrestri, anticamente, usavano per captare le trasmissioni televisive,» disse Horton. «Oppure potrebbero rappresentare una corona.»

«Sono antenne,» disse Elayne. «Antenne biologiche, ne sono sicura. Forse organi dei sensi. La testa, qui, sempre solo un grumo. Non ho mai visto altro. Niente occhi, né orecchie, né bocca o naso. Forse non he hanno bisogno. Forse le antenne forniscono tutti i dati sensoriali necessari. Può darsi che le teste siano soltanto grumi, supporti per le antenne. E la coda. Qui non si vede, ma la coda è ispida. Il resto del corpo, almeno da quanto ho potuto dedurre dalle altre raffigurazioni che ho visto, è sempre vago… una specie di corpo generalizzato. Naturalmente, non possiamo essere sicuri che abbiano proprio questq aspetto. Può darsi che sia solo una rappresentazione simbolica.»

«L’esecuzione artistica è mediocre,» disse Horton. «Rozza e primitiva. Tu non penseresti che un popolo capace di costruire i tunnel avrebbe dovuto lasciare immagini migliori di se stesso?»

«L’ho pensato anch’io,» disse Elayne. «Forse non furono i costruttori dei tunnel ad eseguire queste immagini. Forse non hanno neppure senso artistico. Forse queste opere d’arte sono state eseguite da altri popoli, magari inferiori, che hanno attinto non da una conoscenza diretta, ma dal mito. Forse il mito dei costruttori dei tunnel sopravvive in gran parte della galassia, condiviso da molti popoli diversi, da molte, diverse memorie razziali che hanno resistito nei secoli.»

16.

Il fetore dello stagno era orripilante, ma si attenuava via via che Horton si avvicinava. La prima zaffata era stata peggio che laggiù, accanto all’acqua. Forse, si disse, puzzava di più quando cominciava a disgregarsi e a dissiparsi. Lì, dove era più denso, era mascherato da altre componenti, le componenti non fetide che contribuivano a formarlo.

Lo stagno, notò Horton, era più grande di quanto gli fosse parso quando l’aveva visto la prima volta, dal villaggio in rovina. Era placido, senza un’increspatura. La riva era sgombra: non vi crescevano cespugli, né canne, né vegetazione d’altro tipo. A eccezione dei piccoli rivoletti di sabbia portati dall’acqua che scendeva dal fianco della collina, la riva era di granito. Lo stagno si era formato in un conca di roccia. E com’era pulita la riva, lo era anche l’acqua. Non c’era la schiuma che ci si poteva aspettare in uno specchio d’acqua stagnante. A quanto pareva, lì dentro non poteva esistere vegetazione, forse nessun forma di vita. Ma sebbene fosse pulito, non era limpido. Sembrava racchiudere un’oscurità tenebrosa. Non era azzurro né verde… era quasi nero.

Horton s’era fermato sulla riva, tenendo in mano l’avanzo della carne. Intorno allo stagno, intorno alla sua conca, aleggiava una sorta di tetraggine che scoloriva nella malinconia, se non nella paura. Era un luogo deprimente, ma aveva un suo fascino, si disse. Era un luogo dove un uomo poteva acquattarsi e covare pensieri morbosi… morbosi e romantici. Un pittore, forse, avrebbe potuto servirsene come modello per dipingere un laghetto solitario, trasfondendo nella composizione un senso di solitudine perduta, di distacco dalla realtà.