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Siamo tutti perduti, aveva scritto Shakespeare in quella lunga annotazione alla fine del Pericle. L’aveva scritto solo in senso allegorico, ma lì, a meno di un miglio dal punto in cui l’aveva scritto alla luce vacillante della candela grossolana, c’era la perdizione di cui aveva parlato. Aveva scritto giustamente, quello strano umano venuto da qualche altro mondo, pensò Horton, perché pareva ormai che tutti fossero perduti. Nave e Nicodemus e lui stesso erano perduti nell’immensità del non ritorno, e se quanto aveva detto Elayne era vero, era perduto anche il resto dell’umanità. Forse i soli che non lo erano erano quei pochi rimasti ancora sulla Terra. Per quanto potesse essere divenuta povera, la Terra era ancora la loro patria.

Eppure, pensandoci bene, Elayne e gli altri cercatori dei tunnel forse non erano perduti come tutti gli altri. Lo erano, forse, perché non sapevano mai dove potevano finire, o che genere di pianeta avrebbero trovato: ma senza dubbio non erano perduti al punto di aver bisogno di sapere esattamente dov’erano… autosufficienti, tanto da non aver bisogno di altri umani, né della familiarità… strani esseri che avevano superato il bisogno di una casa e di una patria. Ed era questo, si chiese Horton, il modo per sconfiggere il senso di perdizione? Non aver più bisogno di una casa e di una patria?

Si avvicinò all’orlo dell’acqua e scagliò lontano la carne. Cadde con un tonfo e scomparve immediatamente, come se lo stagno l’avesse accettata, protendendosi per prenderla, risucchiandola in se stesso. Dal centro dello spruzzo si allargarono increspature concentriche, ma non arrivarono a riva. Sparirono. Procedevano per un tratto, poi si appiattivano e scomparivano: lo stagno ritornò alla sua calma serenità, alla sua tenebrosità piatta. Come se, pensò Horton, considerasse preziosa la serenità e non tollerasse perturbazioni.

Ora, pensò, doveva andarsene. Aveva fatto quel che era venuto a fare, ed era tempo di andarsene. Ma non se ne andò; rimase. Come se qualcosa, lì, gli dicesse di non andar via, come se, inspiegabilmente, dovesse indugiare, come un uomo indugia al capezzale di un amico morente, e vorrebbe andarsene, a disagio di fronte all’imminenza della fine, e tuttavia rimane perché sente che, andandosene troppo presto, rinnegherebbe una vecchia amicizia.

Si guardò intorno. A sinistra torreggiava il dorsale dove stava il villaggio abbandonato. Ma dal punto in cui si trovava, non se ne scorgeva traccia. Le case erano nascoste dagli alberi. Davanti a lui si stendeva una palude, sembrava, e a destra c’era una collina conica, un tumulo, che non aveva notato fino ad ora, e che non spiccava nettamente dal dorsale del villaggio.

Calcolò che era alta una sessantina di metri dal livello dello stagno. Era simmetrica; sembrava un cono perfetto, affusolato, con la punta frastagliata. Ricordava un po’ i coni delle ceneri vulcaniche, ma Horton sapeva che non lo era. A parte il fatto che evidentemente non poteva essere un cono, non sapeva spiegarsi perché ne avesse escluso immediatamente il carattere vulcanico. Vi crescevano qua e là alberi solitari, ma per il resto, l’unica vegetazione era costituita da una sorta d’erba che lo rivestiva. Mentre lo guardava, aggrottò la fronte, perplesso. Non c’era nessun fattore geologico che avesse osservato o che riuscisse a ricordare sul momento, e che potesse spiegare una formazione come quella.

Dedicò nuovamente l’attenzione allo stagno, ricordando ciò che aveva detto Carnivoro… che non era veramente acqua, era piuttosto una broda, era troppo densa e pesante per essere acqua.

Si accostò all’orlo, si acquattò e, cautamente, tese un dito per toccare il liquido. La superficie parve opporre una leggera resistenza, come avesse una notevole tensione superficiale. Il dito non si immerse: anzi, sotto la leggera pressione, il liquido si incurvò un poco sotto il polpastrello. Horton premette più forte, e il dito passò. Immerse la mano, ruotò il polso in modo che il palmo, piegato a coppa, fosse rivolto verso l’alto. Alzò la mano, lentamente, e vide di aver raccolto un po’ di liquido. Era immobile nel cavo del palmo, e non filtrava tra le dita chiuse imperfettamente, come avrebbe fatto l’acqua. Sembrava tutto d’un pezzo. Santo Dio, pensò Horton, un pezzo d’acqua!

Ma ormai sapeva che non era acqua. Strano, pensò, che Shakespeare non avesse saputo dire nulla, se non che sembrava una broda. O forse aveva detto di più. C’erano molte annotazioni, nel libro, e lui ne aveva letto solo pochi paragrafi. Una broda, aveva detto Carnivoro, ma non era esatto. Era più caldo di quanto Horton avesse immaginato, e più pesante, anche se era questione d’impressioni e, per essere certo, avrebbe dovuto pesare il liquido, e non ne aveva la possibilità. Era viscido al tatto, sfuggente. Come mercurio, ma non era mercurio: di questo era certo. Girò il polso e lasciò che il fluido scorresse via. Quando fu vuoto, il palmo della sua mano rimase asciutto. Il liquido non bagnava.

Incredibile, si disse. Un liquido più caldo dell’acqua, più pesante, coesivo, e non bagnava. Forse Nicodemus aveva un transmog… no, al diavolo. Nicodemus aveva un lavoro da sbrigare e, appena l’avesse terminato, se ne sarebbero andati da quel pianeta, avanti nello spazio, probabilmente verso altri pianeti, o forse senza meta. E se fosse stato così, lui sarebbe rimasto ibernato, non sarebbe stato richiamato in vita. Il pensiero sembrava spaventarlo meno di quanto sarebbe stato logico.

Ora, per la prima volta, ammetteva ciò che aveva in fondo alla mente, da sempre. Quel pianeta non andava. Carnivoro l’aveva detto nelle prime parole di benvenuto, che non era un buon pianeta. Non era pericoloso, né spaventoso, né ripugnante… non valeva niente. Non era il posto dove un uomo poteva desiderare di restare.

Cercò di analizzare le ragioni di quel pensiero, ma sembrava non vi fossero fattori specifici da allineare e contare. Era solo un’intuizione, una reazione psicologica inconscia. Forse il guaio era che quel pianeta era troppo simile alla Terra… una sorta di Terra sciatta. Aveva immaginato che un pianeta alieno fosse alieno, e non una copia sbiadita e insoddisfacente della Terra. Molto probabilmente, altri erano alieni in modo più soddisfacente. Avrebbe dovuto chiederlo ad Elayne: lei lo avrebbe saputo. Strano, ,pensò, com’era uscita dal tunnel ed aveva salito il sentiero. Strano che, su quel pianeta, due vite umane s’incrociassero… no, non due, ma tre, perché aveva dimenticato Shakespeare. Chissà come, il fato aveva frugato nella sua borsa piena di trucchi ed aveva estratto tre umani, in un arco di tempo limitato… così limitato da farli incontrare, o quasi, nel caso di Shakespeare… in modo che tutti e tre influissero l’uno sull’altro. Adesso Elayne era giù, al tunnel, insieme a Nicodemus, e tra poco Horton li avrebbe raggiunti. Ma prima, probabilmente, avrebbe esaminato quella collinetta conica. Tuttavia, non sapeva come indagare, né cosa avrebbe potuto rivelargli l’indagine. Ma, inspiegabilmente, sembrava importante che le desse un’occhiata. Molto probabilmente aveva quella sensazione, si disse, perché sembrava tanto fuori posto.

Si alzò, fece lentamente il giro dello stagno, dirigendosi verso la collina. Il sole, a metà del cielo, ad oriente, era caldo. Era azzurro pallido, senza traccia di nubi. Horton si sorprese a chiedersi com’era il clima, su quel pianeta. Lo avrebbe chiesto a Carnivoro: era lì da un tempo sufficiente per saperlo.

Aggirò lo stagno e arrivò ai piedi della collina. L’erta era così ripida da costringerlo a procedere sulle mani e sulle ginocchia, piegandosi in avanti per afferrarsi a quella specie d’erba, per non scivolare in basso.