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A metà della salita si fermò, ansimando. Si distese, piantando le mani nel suolo per non sdrucciolare. Girò la testa per guardare lo stagno. La superficie, adesso, era azzurra anziché nera. La tenebra lucida rispecchiava, l’azzurro del cielo. Horton ansimava tanto, per lo sforzo, che gli pareva di sentire la collina ansimare con lui… o forse, era come se nell’interno vi fosse un grande cuore che pulsava ritmicamente.

Ancora semisfiatato, riprese a procedere, sulle mani e sulle ginocchia, e finalmente raggiunse la cima. Là, da una piccola piattaforma che coronava la collina, guardò dall’altra parte, e vide che aveva veramente la forma di un cono. Per tutta la circonferenza, il pendio saliva con la stessa angolazione, come dalla parte da cui si era arrampicato lui.

Sedette incrociando le gambe e guardò oltre lo stagno; sul dorsale di fronte, riuscì a distinguere qualche tratto in muratura del villaggio deserto. Tentò di seguire i contorni delle case, ma si accorse che era impossibile, a causa della fitta vegetazione. Un po’ sulla sinistra c’era la casa di Shakespeare. Un sottile filo di fumo si levava dal fuoco. Non si vedeva nessuno, in giro. Carnivoro, molto probabilmente, non era tornato dalla caccia. E data la depressione del terreno, non poteva vedere il tunnel.

Distrattamente, tirò qualche ciuffo di quella specie d’erba. Alcuni si staccarono, con l’argilla attaccata alle radici. Argilla, si disse, che strano. Che ci faceva l’argilla, lì? Estrasse dalla tasca un temperino, aprì una lama e la piantò nel suolo, scavando una piccola buca. Era tutta argilla, fin dove riuscì ad arrivare. E se fosse stata così l’intera collina? si chiese. Una specie di mostruosa bolla, sollevatasi in un’epoca lontanissima e rimasta lì fino ad ora. Ripulì la lama, rimise in tasca il temperino. Sarebbe stato interessante, pensò, se ne avesse avuto il tempo, studiare la geologia di quel posto. Ma che importanza aveva? Sarebbe occorso molto tempo, e lui non intendeva rimanere così a lungo.

Si alzò, e discese cautamente il pendio.

Al tunnel trovò Elayne e Nicodemus. Lei era seduta su un macigno, e guardava lavorare il robot, che impugnava uno scalpello e un martello e stava incidendo una linea intorno al quadro.

«Sei tornato,» disse Elayne a Horton. «Come mai ci hai messo tanto?»

«Ho esplorato un po’.»

«Nella città? Nicodemus me ne ha parlato.»

«Non sono stato nella città,» disse Horton. «E non c’è nessuna città.»

Nicodemus si girò, con il martello e lo scalpello che gli penzolavano nella mano. «Sto cercando di staccare il quadro dalla roccia,» disse. «Forse, se ci riesco, potrò arrivarci da tergo e lavorare così.»

«Riuscirai soltanto a tagliare i fili,» disse Horton.

«Non credo che ci siano fili,» disse Elayne. «Non può essere un sistema tanto grossolano.»

«E forse,» disse Nicodemus, «se riesco a liberare il pannello, potrò scalzare il coperchio.»

«Il coperchio? Dicevi che era un campo di forza.»

«Non so cosa sia,» disse Nicodemus.

«A quanto ho capito,» disse Horton, «non c’era la seconda scatola. Quella che attiva il coperchio.»

«No,» disse Elayne. «E questo significa che qualcuno ha manomesso l’impianto. Qualcuno che non voleva permettere a nessuno di lasciare il pianeta.»

«Vuoi dire che il pianeta è chiuso?»

«Credo di sì,» disse lei. «Immagino che dovesse esserci qualche avvertimento, davanti agli altri tunnel, per sconsigliare di usare il selettore che poteva portare su questo pianeta: ma se c’era, i cartelli sono spariti da tempo, o forse ci sono ancora e noi non siamo stati in grado di riconoscerli.»

«E anche se li avesse riconosciuti,» disse Nicodemus, «probabilmente non sarebbe stata capace di leggerli.»

«È esatto,» disse Elayne.

Carnivoro stava arrivando, lungo il sentiero. «Sono tornato con carne nuova e fresca,» annunciò. «Come va, qui? Avete risolto tutto?»

«No,» disse Nicodemus, e si rimise al lavoro.

«Ci metti parecchio,» disse Carnivoro.

Nicodemus tornò a voltarsi di scatto. «Non starmi addosso!» scattò. «Non fai altro che ossessionarmi da quando ho cominciato. Tu e il tuo amico Shakespeare siete stati per anni senza combinar nulla, e adesso pretendi che noi risolviamo tutto in un’ora o due.»

«Ma gli utensili li hai,» gemette Carnivoro. «Utensili e competenza. Shakespeare non li aveva, e neppure io. Pensavo che, con gli utensili e la competenza…»

«Carnivoro,» disse Horton, «non ti abbiamo mai assicurato di poter fare qualcosa. Nicodemus ha detto che avrebbe tentato. Non ti ha garantito niente. Smettila di comportarti come se infrangessimo una promessa. Non te ne abbiamo mai fatte.»

«Forse è meglio,» disse Carnivoro, «che tentiamo un po’ di magia. Magia messa insieme. La mia magia, la tua magia e la sua magia.» E indicò Elayne.

«La magia non servirebbe a niente,» fece brusco Nicodemus. «La magia non esiste.»

«Oh, esiste, sicuro,» disse Carnivoro. «Su questo non c’è dubbio.» E si appellò ad Elayne. «Non lo diresti anche tu?»

«Io ho visto la magia,» disse lei, «o quella che veniva considerata tale. In parte sembrava funzionare. Non sempre, naturalmente.»

«Pura coincidenza,» disse Nicodemus.

«No, più che una coincidenza,» disse Elayne.

«Perché non ce ne andiamo tutti quanti,» disse Horton, «e lasciamo lavorare in pace Nicodemus? A meno che,» disse al robot, «tu ritenga di aver bisogno d’aiuto.»

«Non ne ho bisogno,» disse Nicodemus.

«Andiamo a vedere la città,» propose Elayne. «Muoio dalla voglia di visitarla.»

«Ci fermeremo al campo, a prendere una lampada tascabile,» disse Horton. E chiese a Nicodemus: «Ce l’abbiamo, vero?»

«Sì,» disse il robot. «La troverai nello zaino.»

«Tu vieni con noi?» chiese Horton a Carnivoro.

«No, se non ti dispiace,» disse Carnivoro. «La città mi rende nervoso. Resterò qui. Terrò allegro il robot.»

«Tu terrai la bocca chiusa,» disse Nicodemus. «Non mi respirerai addosso. Non mi darai consigli non richiesti.»

«Mi comporterò,» disse umilmente Carnivoro, «come se non ci fossi.»

17.

I comitati erano stati la sua vita, ammise la gran dama di fronte a se stessa, e c’era stato un tempo in cui aveva pensato a quella realtà attuale come ad un’attività di comitato. Un altro comitato, si era detta, cercando di dominare la paura di ciò che aveva accettato, cercando di ridurlo a termini comuni e comprensibili per lei, in modo che non lasciasse adito alla paura. Eppure, ricordava, quella paura era stata controbilanciata da un’altra. E perché, si chiese, perché il movente doveva essere la paura? Allora, naturalmente, tranne in certi momenti segreti, non aveva ammesso di aver paura. Aveva detto a se stessa, inducendo anche gli altri a crederlo, di aver agito per puro altruismo, di non aver altro pensiero che il bene dell’umanità. Le avevano creduto, o almeno pensava che le avessero creduto, perché quel movente e quel gesto si inquadravano così bene in ciò che aveva fatto per tutta la vita. Era conosciuta per le sue buone azioni, per la profonda pietà verso l’umanità sofferente, ed era facile supporre che la sua dedizione al bene della gente della Terra l’avesse condotta a quel sacrificio finale.

Eppure, a quanto poteva ricordare, non l’aveva mai considerato un sacrificio. Era stata disposta, ricordò, a lasciare che gli altri lo ritenessero tale, e qualche volta aveva addirittura incoraggiato quella convinzione. Sembrava un atto molto nobile sacrificarsi, e lei voleva essere ricordata per le sue azioni nobili, e quell’ultima era la più grande di tutte. Nobiltà ed onore, pensò; erano state le cose più preziose, per lei. Ma, dovette riconoscere, non una nobiltà tranquilla ed un onore silenzioso, perché in tal caso lei non sarebbe stata notata. E quello sarebbe stato impensabile, perché aveva bisogno di attenzione e di approvazione. Presidentessa, ex presidentessa, delegata, rappresentante nazionale, segretaria, tesoriera di organizzazioni ed organizzazioni, fino a quando non aveva più avuto tempo per pensare, con tutti gli istanti occupati, sempre in movimento.