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Mi sembra, disse lo scienziato, che stiamo andando come si voleva. Impiegando più tempo, molto probabilmente, di quanto si prevedesse. Ma tra altri mille anni, forse, saremo riusciti a diventare ciò che dovevamo. Siamo sinceri con noi stessi e l’uno nei confronti degli altri, e immagino che c’entri anche questo. Non possiamo spogliarci completamente della nostra umanità in così poco tempo. La razza umana ha impiegato due milioni d’anni a realizzarla, e non è possibile gettarla via come fosse un vestito.

E tu, Scienziato?

Io?

Sì, tu. Noialtri due siamo finalmente sinceri. E tu?

Io? Non ci ho mai pensato. Non ho mai avuto un dubbio. Ogni scienziato, soprattutto un astronomo come me, avrebbe dato l’anima pur di partire. E pensandoci bene, figurativamente, forse ho dato l’anima. Ho intrigato per venire eletto in questo conglomerato di umanità, o come preferite chiamarlo. Ho intrigato per riuscirci. Avrei combattuto, per questo. Avevo supplicato certi amici, privatamente e discretamente, di assecondare la mia candidatura. Avrei fatto qualunque cosa. Non consideravo un onore la selezione. Non ho agito come voi due, per paura: eppure, in un certo senso, posso averlo fatto per la stessa ragione. Stavo invecchiando, vedete, e cominciavo a provare la sensazione assillante che mi rimanesse poco tempo, che la sabbia della clessidra stesse per esaurirsi. Sì, pensandoci bene, può esserci stata un po’ di paura, una paura inconscia. Ma sostanzialmente, era la sensazione che non potevo permettermi di sprofondare nella tenebra finale quando c’era ancora tanto da fare. Non che quello che ora osservo o deduco possa avere qualche effetto sulla Terra, perché non faccio più parte della Terra.

Ma in ultima analisi, non credo che abbia mai avuto importanza. Lavoravo, non per la Terra né per i miei simili, ma per me stesso… per la mia soddisfazione personale. Non cercavo gli applausi. Diversamente da te, cara signora, io mi nascondevo. Rifuggivo la pubblicità. Non concedevo interviste e non scrivevo libri. Articoli scientifici, certo, per dividere le mie scoperte con i miei colleghi, ma niente per l’uomo della strada. Credo, tutto sommato, di essere o di esser stato un uomo estremamente egoista. Mi preoccupavo solo di me stesso. E adesso sono lieto di dirvi che con voi due mi trovo a mio agio. Come se fossimo vecchi amici, sebbene prima non lo fossimo mai stati; e forse nessuno di noi è veramente amico degli altri due secondo la definizione classica dell’amicizia. Ma se andiamo d’accordo, credo che, date le circostanze, possiamo chiamarla amicizia.

Che bell’equipaggio, siamo, disse il monaco. Uno scienziato egoista, una cacciatrice di gloria, e un monaco che aveva paura.

Aveva?

Non ho più paura. Non c’è più nulla che possa toccare me o voi. Ce l’abbiamo fatta.

Abbiamo ancora molta strada da percorrere, disse lo scienziato. Questo non è il posto né il momento per gloriarsi. Umiltà, umiltà, umiltà.

Sono stato umile per tutta la mia vita terrena, disse il monaco. Ora non lo sono più.

18.

«C’è qualcosa che non va,» disse Elayne. «Qualcosa fuori posto. No, forse non si tratta di questo. Ma c’è un qualcosa che non abbiamo scoperto. Qui c’è una situazione che attende… forse non noi, ma attende.»

Era tesa, quasi irrigidita, e Horton ricordò il vecchio setter con cui, qualche volta, era andato a caccia di quaglie. Un senso di attesa, sapere e non sapere, alzarsi in punta di piedi con acuta consapevolezza.

Aspettò e finalmente, con uno sforzo, lei si rilassò.

Elayne lo guardò con occhi imploranti, supplicandolo di crederle. «Non ridere di me,» disse. «Io so che c’è qualcosa, qui… qualcosa di straordinario. Non so cosa.»

«Non rido di te,» disse Horton. «Ti credo sulla parola. Ma come…»

«Non so,» disse lei. «Una volta, in una situazione simile, avrei diffidato di me stessa. Ma adesso no. È già accaduto molte volte. È quasi una certezza. Una premonizione.»

«Tu pensi che potrebbe essere pericoloso.»

«Non c’è modo di saperlo,» disse Elayne. «Solo quel senso di qualcosa.»

«Finora non abbiamo trovato nulla,» disse Horton: ed era vero. Nei tre edifici che avevano esplorato non c’era altro che la polvere, i mobili corrosi, le ceramiche ed i vetri. Per un archeologo, avrebbero potuto avere un significato, si disse Horton: ma per loro due era soltanto una vecchiaia, muffita, polverosa, ripetitiva, nel contempo futile e deprimente. Chissà quando, nel lontano passato, lì erano vissuti esseri intelligenti: ma ai suoi occhi inesperti, niente indicava lo scopo della loro presenza lì.

«Ci ho pensato spesso,» disse Elayne. «Perché non sono l’unica ad averlo. Ve ne sono altri. Una facoltà nuova, un istinto acquisito… impossibile dirlo. Quando gli uomini andarono nello spazio ed atterrarono su altri pianeti, furono costretti ad adattarsi — come diresti? — all’inverosimile, forse. Dovettero sviluppare nuove tecniche di sopravvivenza, nuove abitudini di pensiero, nuove intuizioni e nuovi sensi. Forse è questo che noi abbiamo: un senso nuovo, una nuova coscienza. I pionieri della Terra, quando si spinsero in aree sconosciute, svilupparono qualcosa del genere. E forse l’aveva anche l’uomo primitivo. Ma sulla vecchia Terra, assestata e civile, venne un tempo in cui non ce ne fu più bisogno, e andò perduto. In un ambiente civile vi sono poche sorprese. Si sa abbastanza bene quello che ci si può aspettare. Ma quando andò alle stelle, l’uomo riscoprì il bisogno della vecchia coscienza.»

«Non guardare me,» disse Horton. «Io sono uno di coloro che appartenevano a quella che tu chiami la Terra civile.»

«Era civile?»

«Perché ti possa rispondere, devi definire il termine. Che cos’è civile?»

«Non saprei,» disse Elayne. «Non ho mai visto un mondo completamente civile, nel senso in cui lo era la Terra. O almeno, credo di non averlo visto. Di questi tempi n’on si può mai essere sicuri. Tu ed io, Carter Horton, veniamo da epoche diverse. Forse vi saranno momenti in cui dovremo avere molta pazienza l’una con l’altro.»

«Parli come se avessi visto molti mondi.»

«Li ho visti,» disse lei. «Con questo lavoro di rilevamento. Arrivi in un posto, resti un giorno o due… be’, magari di più, ma non a lungo. Solo quanto basta per fare qualche osservazione, buttar giù qualche appunto, farti un’idea di che tipo di mondo è. In modo da poterlo riconoscere, capisci, se per caso ci ritorni. Perché è importante sapere se il sistema dei tunnel ti riporta in un luogo dove sei già stato. In certi posti vorresti fermarti per qualche tempo. Di tanto in tanto, trovi un posto veramente piacevole. Ma sono pochi. Quasi sempre, sei ben contento di andartene.»

«Dimmi una cosa,» fece Horton, «Mi stavo chiedendo… Tu stai partecipando a questa spedizione ricognitiva. Tu la chiami così. A me sembra una caccia alle farfalle. Non puoi avere più di una probabilità su un milione, eppure…»

«Ti ho detto che ci sono anche gli altri.»

«Ma anche se foste un milione, uno solo di voi avrebbe la probabilità di ritornare ad un mondo che è stato visitato prima. E sarebbe tempo sprecato, se uno solo trovasse la via del ritorno. Dovreste essere in parecchi a riuscire, prima che vi fosse la probabilità statistica di realizzare la mappa dei tunnel, o almeno di cominciare a realizzarla.»

Elayne lo fissò freddamente. «Dal luogo da cui provieni, di certo, avrai sentito parlare della fede.»

«Certo che ho sentito parlare della fede. Fede in se stessi, nel proprio paese, nella propria religione. E questo che c’entra?»