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«La fede è spesso tutto ciò che uno possiede.»

«La fede,» disse lui, «è pensare che sìa possibile qualcosa quando sei ben sicura che non lo è.»

«Perché sei così cinico?» chiese lei. «Così miope? Così materialista?»

«Non sono cinico,» disse Horton. «Ma tengo conto delle probabilità. E non eravamo miopi. Fummo noi, ricordalo, i primi ad andare alle stelle; e ci andammo, ci convincemmo ad andare, grazie al materialismo che tu hai l’aria di disprezzare tanto.»

«È vero,» riconobbe Elayne. «ma non è di questo che sto parlando. La Terra era una cosa; le stelle un’altra. Quando vai tra le stelle, i valori cambiano, i punti di vista si modificano. C’è un’antica frase… ‘è un altro gioco’. Sai dirmi cosa significa?»

«Immagino alluda a un evento sportivo.»

«Vuoi dire quegli sciocchi esercizi che si eseguivano un tempo sulla Terra?»

«Non li eseguite più? Non ci sono più sport?»

«C’è troppo da fare, troppo da imparare. Non abbiamo più bisogno di cercare divertimenti artificiali. Non ne abbiamo il tempo e, anche se lo avessimo, non interesserebbero a nessuno.»

Elayne indicò un edificio semisepolto da cespugli ed alberi. «Credo sia quello,» disse.

«Quello?»

«Quello dov’è la stranezza. La cosa strana di cui ti ho parlato.»

«Dobbiamo andare a vedere?»

«Non so bene,» disse lei. «Per dirti la verità, ho un po’ paura. Di quel che potremmo trovare, capisci?»

«Non ne hai idea? Dici di percepire questo qualcosa. La tua percezione arriva almeno a darti qualche accenno?»

Elayne scosse il capo. «Solo che è strano. Qualcosa di straordinario. Forse spaventoso, anche se non provo un vero spavento. Solo un’agitazione della mente, la paura dell’insolito, dell’inaspettato. Solo quel terribile senso di stranezza.»

«Sarà faticoso entrare,» disse Horton. «La vegetazione è molto fitta. Dovrei tornare all’accampamento a prendere un machete. Mi pare che l’abbiamo portato.»

«Non è necessario,» disse Elayne. Estrasse l’arma dalla fondina che portava alla cintura.

«Questo brucerà la vegetazione e aprirà un passaggio,» disse. Era un’arma più grossa di quanto apparisse nella fondina, con la canna ad ago, un po’ ingombrante.

Horton la guardò. «Un laser?»

«Credo. Non lo so. Non è solo un’arma, ma anche un utensile. Sul mio pianeta d’origine, è normale. Lo portano tutti. Si può regolare, vedi…» Gli mostrò il quadrante inserito nell’impugnatura. «Un filo tagliente, un effetto a ventaglio, quello che vuoi. Ma perché me lo domandi? Ne hai uno anche tu.»

«È diverso,» disse Horton. «Un’arma piuttosto rozza, ma efficiente, se si sa come usarla. Lancia un proiettile. Una pallottola. Calibro quarantacinque. È un’arma, non un utensile.»

Elayne aggrottò la fronte. «Ho sentito parlare del principio,» disse. «Un concetto molto antico.»

«Può darsi,» disse Horton, «ma era il meglio, al tempo in cui lasciai la Terra. Nelle mani di un uomo che sa farla funzionare, è precisa e mortale. Alta velocità, enorme potenza di arresto. Attivata a polvere… nitrato, credo, forse cordite. Non ne conosco bene la chimica.»

«Ma la polvere… ma nessun composto avrebbe potuto durare per tutti gli anni che hai passato a bordo della nave. Con il tempo si sarebbe decomposto.»

Horton le lanciò un’occhiata sbigottita, sorpreso di scoprire che lei sapesse tante cose. «Non ci avevo pensato,» disse. «Ma è vero. Il convertitore di materia, naturalmente…»

«Hai un convertitore di materia?»

«Nicodemus mi ha detto di sì. In realtà non l’ho visto. Non ne ho mai visto uno, per dire la verità. I convertitori di materia non esistevano, quando venni ibernato. Vennero realizzati più tardi.»

«Un’altra leggenda,» disse Elayne. «Un’arte perduta…»

«Per niente,» disse Horton. «Tecnologia.»

Lei scrollò le spalle. «Qualunque cosa sia… è perduta. Noi non abbiamo convertitori di materia. Come ho detto, un’altra leggenda.»

«Bene,» disse Horton, «andiamo a vedere cos’è quella tua stranezza, oppure…»

«Andiamo a vedere,» disse Elayne. «Lo regolerò alla potenza minima.»

Spianò l’utensile, ed una foschia celeste se ne irradiò. Il sottobosco si dileguò con uno sbuffo ed un bizzarro mormorio, la polvere fluttuò nell’aria.

«Attenta,» ammonì Horton.

«Non preoccuparti,» rispose Elayne, con voce tagliente. «So adoperarlo.»

Ed era evidente. Aprì un sentiero, stretto e regolare, aggirando un albero. «È inutile bruciarlo. Sarebbe uno spreco.»

«La senti ancora?» chiese Horton. «La stranezza. Riesci a capire cos’è?»

«C’è ancora,» disse lei. «Ma non ho idea di cosa sia, come non l’avevo prima.»

Rinfoderò la pistola; e Horton, accendendo la torcia elettrica, la precedette nell’edificio.

L’interno era buio e polveroso. Lungo i muri c’erano mobili semisgretolati. Un animaletto lanciò uno squittio di terrore e attraversò correndo la stanza, un guizzo di movimento nell’oscurità.

«Un topo,» disse Horton.

Imperturbata, Elayne disse: «Probabilmente non era un topo. I topi appartengono alla Terra, o almeno così dicono le vecchie filastrocche. Ce n’è una che dice ‘Topolino, topolino, cosa fai di buon mattino?’»

«Allora le filastrocche per bambini sono sopravvissute?»

«Alcune sì,» disse lei. «Non tutte, credo.»

Si trovarono davanti ad una porta chiusa, e Horton tese una mano, la spinse. La porta crollò, sfasciandosi sulla soglia.

Horton alzò la torcia, proiettando il raggio nell’altra stanza. E la stanza sfolgorò, un bagliore di luce dorata venne ributtato loro in faccia. Indietreggiarono vacillando di un passo, e Horton abbassò la lampada. Cautamente la rialzò e questa volta, nel bagliore della luce riflessa, videro che cosa l’aveva causata. Al centro della stanza che riempiva quasi completamente, c’era un cubo.

Horton abbassò la torcia elettrica per ridurre il riflesso, e muovendosi lentamente entrò nella stanza.

La luce della lampada, non più riflessa dal cubo, pareva venirne assorbita, risucchiata e irradiata nel suo interno, così che il cubo pareva luminoso.

Nella luce stava sospeso un essere. Un essere… era l’unica descrizione che poteva venire in mente. Era enorme: riempiva quasi il cubo, ed il corpo si estendeva oltre la loro visuale. Per un momento, vi fu un senso di massa, ma non una massa qualunque. C’era un senso di vita, un flusso che istintivamente annunciava che si trattava di una massa viva. Quella che pareva una testa era reclinata contro quello che poteva essere il petto. E il corpo… ma era un corpo? Era coperto da una complessa filigrana di incisioni. Come un’armatura, pensò Horton… come un esemplare costoso dell’arte orafa.

Al suo fianco, Elayne si lasciò sfuggire un grido soffocato di sbalordimento. «È bellissimo,» disse.

Horton si sentiva impietrito, in parte per lo stupore, in parte per la paura. «Ha una testa,» disse. «Quella maledetta cosa è viva.»

«Non si è mossa,» disse lei. «E si sarebbe mossa. Al primo tocco della luce, si sarebbe mossa.»

«Dorme,» disse Horton.

«Non credo che dorma,» ribatté Elayne.

«Deve essere viva,» disse lui. «Tu l’avevi sentita. Deve essere questa, la stranezza che sentivi. Non hai ancora idea di cosa sia?»

«No,» disse Elayne. «Non ho mai sentito parlare di niente di simile. Niente leggende. Niente storie antiche. Niente di niente. E così bella. Orribile, ma bellissima. Tutti quei disegni fini, intricati. È qualcosa che porta addosso… no, adesso vedo che non è un indumento. Le incisioni sono sulle scaglie.»

Horton cercò di seguire il contorno del corpo, ma senza riuscirvi mai. Cominciava bene, lo seguiva per un po’, e poi il contorno spariva, svaniva e si dissolveva nella foschia dorata che aleggiava nel cubo, e si perdeva nelle circonvoluzioni della forma.