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Il guaio è, naturalmente, che si fa l’esperienza di troppe cose: molte, anzi no, tutte, non si comprendono, e dopo l’evento si rimane aggrappati ad esso, e ci si domanda inorriditi se la mentalità umana è capace di comprenderne più di una minima parte. Talvolta mi sono chiesto se si tratta di un voluto meccanismo d’apprendimento; ma se lo è, si tratta di un insegnamento eccessivo, di massicci testi eruditi scagliati addosso ad un allievo stupido che non ha ancora le basi rudimentali di ciò che gli viene insegnato, ed è quindi incapace di afferrare i principi necessari per una comprensione anche vaga.

Me lo sono chiesto, ho detto, ma non mi sono mai spinto oltre. Con il passare del tempo, mi sono convinto sempre di più che nell’ora di Dio io facevo l’esperienza di qualcosa non destinato a me, né agli umani… che l’ora di Dio, qualunque cosa sia, emani da una sorta di entità del tutto ignara della possibile esistenza degli umani, e pronta ad abbandonarsi ad una risata cosmica se apprendesse l’esistenza di una cosa quale io sono. Io mi trovo, ne sono convinto, semplicemente preso entro la rosa del colpo di fucile, bersagliato da pallini dispersi che erano destinati a capi di selvaggina molto più grossi.

Ma non appena me ne sono convinto, mi sono reso conto, acutamente, che la fonte dell’ora di Dio, almeno in modo marginale, si era accorta di me ed era riuscita a scavare profondamente nella mia memoria e nella mia psiche, perché talvolta, anziché venire spalancato al cosmo, venivo spalancato a me stesso, al passato, e per un periodo di durata ignota rivivevo, con certe distorsioni, eventi del passato che quasi invariabilmente erano di una sgradevolezza estrema, momenti strappati al limo della mia mente, in cui erano rimasti profondamente sepolti, e dove avrei voluto lasciarli nascosti, per la vergogna ed il rimorso, ma che ora venivano dissepolti e spiegati davanti a me, mentre io mi contorcevo per l’imbarazzo e l’umiliazione, costretto a rivivere certi episodi della mia vita che avevo nascosto, non soltanto agli altri, ma anche a me stesso. E peggio ancora, certe fantasie che nei momenti incauti avevo sognato nel segreto della mia anima, inorridendo quando avevo scoperto cosa stavo sognando. Anche queste fantasie vengono strappate urlanti al mio inconscio, vengono presentate davanti a me in una luce spietata. Non so cosa sia peggio, se aprirmi all’universo, o la rivelazione dei miei segreti.

Perciò ho capito che, inspiegabilmente, l’ora di Dio si era accorta di me… forse non proprio di me come persona, ma come un grumo di materia oscena e disgustosa: e mi aveva scostato, in un gesto d’irritazione per la mia presenza, senza perdere tempo a farmi del male, senza schiacciarmi come io schiaccerei un insetto, ma semplicemente spingendomi da parte, o cercando di farlo. E da questo, stranamente, io ho tratto un po’ di coraggio, perché se l’ora di Dio si è accorta di me, sia pure marginalmente, allora mi sono detto che non costituisce un pericolo. E se bada così poco a me, allora senza dubbio sta cercando una preda più grossa: e l’aspetto più terrificante della situazione è che, mi sembra, questa preda deve essere qui, su questo pianeta. E non solo su questo pianeta, ma su questo suo particolare segmento… deve essere molto vicina a noi.

Mi sono stillato il cervello nel tentativo d’immaginare cosa può essere, e se è ancora qui. L’ora di Dio era destinata alla popolazione che abitava la città ora deserta? E in tal caso, perché l’entità responsabile dell’ora di Dio non sa che se ne è andata? Più ci penso, e più mi convinco che il bersaglio non era la popolazione della città, che l’ora di Dio è diretta a qualcoa che è ancora qui. Cerco di scoprire cosa può essere, e non ne ho idea. Sono ossessionato dal pensiero di avere il bersaglio sotto gli occhi, tutti i giorni, eppure non lo riconosco. È una sensazione frustrante ed inquietante. Mi sento sbilanciato e stupido e, qualche volta, abbastanza spaventato. Se un uomo può essere tanto lontano dal contatto con la realtà, tanto cieco ad essa, tanto insensibile a ciò che lo circonda, allora in verità la razza umana è più incapace e debole di quanto abbiamo pensato.

Quando arrivò alla fine di ciò che aveva scritto Shakespeare, Elayne alzò la testa dal volume e guardò Horton. «Sei d’accordo?» chiese. «Hai avuto le stesse reazioni?»

«Ci sono passato solo due volte,» rispose Horton. «Finora, la somma totale delle mie reazioni è un immenso sgomento.»

«Shakespeare dice che è ineluttabile. Dice che non è possibile sottrarvisi.»

«Carnivoro si nasconde,» disse Nicodemus. «Si mette al coperto. Dice che non è così orrendo, quando si è al coperto.»

«Lo saprai tra qualche ora,» disse Horton. «Ho l’impressione che sia meno terribile, se non cerchi di opporre resistenza. È impossibile descriverla. Bisogna farne l’esperienza, per capire.»

Elayne rise, un po’ nervosamente. «Non vedo l’ora,» disse.

21.

Carnivoro arrivò un’ora prima del tramonto. Nicodemus aveva tagliato le bistecche e stava accosciato a farle rosolare. Indicò un enorme pezzo di carne che aveva deposto su uno strato di foglie strappate a un albero.

«È per te,» disse. «Ti ho scelto il taglio migliore.»

«Nutrimento,» disse Carnivoro, «è una cosa di cui ho gran bisogno. Ti ringrazio dal profondo delle viscere.»

Raccolse il pezzo di carne con tutte e due le mani e si acquattò davanti al mucchio di legna su cui sedevano gli altri due. Se lo portò alla bocca e l’addentò. Il sangue gli scorse sui baffi.

Masticando energicamente, alzò gli occhi verso i suoi due compagni.

«Non vi disturbo, spero,» disse, «con il mio mangiare indecoroso. Sono grandemente affamato. Forse dovevo aspettare?»

«Ma no,» disse Elayne. «Mangia pure. Le nostre bistecche saranno pronte fra poco.» Affascinata e nauseata, guardava il sangue che scendeva sui tentacoli di Carnivoro.

«Ti piace la buona carne rossa?» chiese lui.

«Mi ci abituerò,» disse lei.

«Non è necessario,» disse Horton. «Nicodemus può trovarti qualcosa d’altro.»

Elayne scosse il capo. «Quando si viaggia da un mondo all’altro, si incontrano molte strane usanze. Alcune possono addirittura apparire scandalose al tuo pregiudizio. Ma nel mio modo di vivere, il pregiudizio non può esistere. Bisogna avere una mentalità aperta e ricettiva… e bisogna conservarla.»

«Ed è per questo che mangi la carne insieme a noi?»

«Be’, all’inizio è stato così, e credo che lo sia ancora, in una certa misura. Ma penso che, senza troppo sforzo, potrei finire per prediligere la carne.» Poi, a Nicodemus: «Puoi cuocere bene la mia bistecca?»

«Già fatto,» disse Nicodemus. «La sua l’ho messa a cuocere prima di quella di Carter,»

«Mi è stato detto molte volte, dal mio vecchio amico Shakespeare,» disse Carnivoro, «che sono un cafone irrimediabile, che non conosco le buone maniere e ho abitudini schifose. Per dirvi la verità, sono devastato da tale valutazione, ma ormai sono troppo vecchio per cambiare modo di vivere, e in nessun caso voglio diventare un damerino affettato. Se sono un cafone, ci terrò a esserlo, perché la cafonaggine è una situazione piacevole.»

«Sei un cafone, sicuro,» disse Horton. «ma se ti rende felice, non badare a noi.»

«Ti sono riconoscente per la tua graziosità,» disse Carnivoro. «E felice di non dover cambiare. Mi è difficile cambiare.» E disse a Nicodemus: «Hai quasi finito con il tunnel?»

«Non solo non ho quasi finito,» disse Nicodemus, «ma ormai sono quasi sicuro che non si può far niente.»

«Vuoi dire che non puoi ripararlo?»

«È esattamente quello che voglio dire, a meno che qualcuno se ne venga fuori con un’idea geniale.»

«Oh, be’,» disse Carnivoro, «sebbene la speranza scaturisce sempre nelle mie viscere, non sono sorpreso. Oggi ho camminato a lungo, comunicando con me stesso, e mi dico, che non devo aspettarmi troppo. Mi dico che la vita non è dura con me e ho avuto molte felicità, e che dato questo non vomiterò di fronte ad eventi sbagliati. E poi cerco alternative nella mia mente. Mi è sembrato che potevo tentare con la magia. Tu mi hai detto, Carter Horton, che non ti fidi della magia e non la capisci. Tu e Shakespeare siete uguali. Lui si fa molte beffe della magia. Dice che non è buona a niente. Forse la nostra nuova compatriota non la pensa così.» E guardò Elayne con aria implorante.