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Lei disse: «Hai provato la tua magia?»

«Sì,» rispose Carnivoro. «Ma contro la risata sprezzante di Shakespeare. Le risate, mi dico, la smussano, la riducono a niente.»

«Non so,» disse Elayne. «Ma sono sicura che bene non ne fanno.»

Carnivoro annuì con aria saggia. «Allora mi dico, se la magia fallisce, se il robot fallisce, se tutto il resto fallisce, io cosa faccio? Resto su questo pianeta? Sicuramente no, dico. Sicuramente i miei nuovi amici troveranno un posto per me quando da questo pianeta s’involano nello spazio.»

«Adesso fai conto su di noi,» disse Nicodemus. «Avanti, abbaia pure. Rotolati per terra e scalcia e strilla. Non ti servirà a niente. Non possiamo ibernarti e…»

«Almeno,» disse Carnivoro, «sono con amici. Fino a che muoio, sono con amici e lontano di qui. Occupo poco posto. Mi rannicchio in un angolo. Mangio molto poco. Non dò fastidio. Terrò la bocca chiusa.»

«Magari,» disse Nicodemus.

«Spetta a Nave decidere,» disse Horton. «Ne parlerò con Nave. Ma non ho molte speranze.»

«Voi comprendete,» disse Carnivoro, «che io sono un guerriero. Per un guerriero c’è un modo solo di morire, nella sanguinosità del combattimento. È così che voglio morire io. Ma forse non sarà così. Al fato m’inchino. Ma non voglio morire qui, senza nessuno che mi vede morire, che pensa, povero Carnivoro, se ne è andato; a trascinare i miei ultimi giorni nell’odiosa nullità di questo posto dimenticato dal tempo…»

«Ecco,» disse Elayne, all’improvviso. «Il tempo. Ecco cosa dovevo pensare, fin dal primo momento.»

Horton la fissò, sbalordito. «Il tempo? Cosa stai dicendo? Cosa c’entra il tempo?»

«Il cubo,» disse lei. «Il cubo che abbiamo trovato nella città. Con l’essere chiuso dentro. Quel cubo è tempo congelato.»

«Tempo congelato!» esclamò Nicodemus. «Il tempo non può essere congelato. Si congela la gente e i viveri e altre cose. Ma il tempo no.»

«Tempo arrestato,» disse Elayne. «Vi sono storie… leggende… dicono che è possibile. Il tempo fluisce. Si muove. Arrestane il flusso, il movimento. Niente passato, niente futuro. Solo il presente. Un presente eterno. Un presente esistente dal passato e incastonato nel futuro che ormai è divenuto presente.»

«Parli come lo Shakespeare,» borbottò Carnìvoro. «Sempre a sputare scemenze. Sempre bla, bla, bla. A dire cose senza senso. Solo per ascoltarsi parlare.»

«Non è affatto così,» insistette Elayne. «Vi sto dicendo la verità. Su molti pianeti, vi sono leggende che dicono che il tempo può venire manipolato, che esistono modi per riuscirvi. Nessuno sa dire chi lo fa…»

«Forse i costruttori dei tunnel.»

«Non c’è mai un nome. Le leggende dicono soltanto che è possibile.»

«Ma perché proprio qui? Perché quell’essere sarebbe congelato nel tempo?»

«Forse per attendere,» disse Elayne. «Forse perché sia qui quando se ne presenterà la necessità. Forse coloro che chiusero l’essere nel tempo non sapevano quando la necessità si sarebbe presentata…»

«E perciò ha atteso nei secoli,» disse Horton, «e dovrà attendere altri millenni…»

«Ma non capisci?» disse lei. «Secoli o millenni, è lo stesso. Congelato com’è, non ha esperienza del tempo. Esiste e continua ad esistere entro quel microsecondo…»

Scoccò l’ora di Dio.

22.

Per un momento, Horton venne scagliato nell’universo, con lo stesso senso nauseante d’infinito che aveva già provato: poi i frammenti dispersi si ricomposero e l’universo si restrinse, e la sensazione di estraneità cessò. C’erano di nuovo il tempo e lo spazio coordinati, nettamente, ed egli sapeva dov’era: tuttavia gli pareva di essersi sdoppiato, sebbene quella duplicità sembrasse non fastidiosa, persino naturale.

Si accovacciò sul grasso terriccio nero e tepido, tra due filari di piante. Davanti a lui, i filari continuavano, due linee verdi con una striscia nera in mezzo. A sinistra e a destra, c’erano innumerevoli altre linee verdi parallele, inframmezzate da strisce nere… ma le strisce nere doveva immaginarle, perché le linee verdi si fondevano e, da entrambi i lati, c’era soltanto uno scuro tappeto verde.

Accovacciato, con il tepore del suolo sotto i piedi nudi, girò la testa e dietro di lui il tappeto verde finiva, molto lontano, ai piedi d’una struttura torreggiante, così alta che la cima si perdeva in una bianca nube fioccosa, contro lo sfondo azzurro del cielo.

Tese le sue mani di bambino e raccolse i fagioli che pendevano, pesanti, dalle piante, usando la sinistra per scostare i rametti, per arrivare ai baccelli aggrovigliati nel fogliame, cogliendoli con la destra e lasciandoli cadere in un cesto semipieno posato sulla striscia di terra nera, proprio davanti a lui.

Poi vide ciò che prima non aveva notato: a intervalli regolari, tra i filari, più avanti, attendevano altri cesti vuoti, in attesa di essere riempiti, piazzati lì in base ad un calcolo approssimativo che stabiliva quando un cesto sarebbe stato pieno, e ne sarebbe divenuto necessario un altro. E dietro di lui c’erano altri canestri, già riempiti, in attesa del veicolo che più tardi sarebbe passato tra i filari a ritirarli.

C’era qualcosa d’altro che prima non aveva osservato: non era solo, nel campo, ma c’erano molti altri con lui, quasi tutti bambini, sebbene vi fossero anche vecchi, uomini e donne. Alcuni erano più avanti di lui, perché erano raccoglitori più svelti, o forse meno scrupolosi, e altri erano più indietro.

Le nubi screziavano il cielo, pigre nubi lanose, ma in quel momento nessuna copriva il sole, e il sole brillava con un calore ardente che lui sentiva attraverso la camicia sottile. Strisciava lungo il filare, raccogliendo, coscienziosamente, lasciando i baccelli più piccoli a maturare per un altro paio di giorni, e spiccando tutti gli altri… con il sole che gli batteva sulla schiena, il sudore che sgorgava dalle ascelle e scorreva giù per le costole, e sotto i piedi la morbidezza e il tepore del suolo ben coltivato. La sua mente era sul neutro, aggrappata al presente, non avanzava né arretrava nel tempo, contenta del momento attuale, come se lui fosse un organismo semplice che assorbiva il calore e, in qualche strano modo, traesse nutrimento dal suolo, come lo avevano tratto i fagioli che raccoglieva.

Ma c’era qualcosa di più. C’era il ragazzino, che aveva nove o dieci anni, e c’era anche il Carter Horton attuale, una seconda persona apparentemente invisibile, che si teneva in disparte, od era situata altrove, ed osservava il ragazzino che era stato un tempo, e sentiva e pensava e provava ciò che aveva conosciuto un tempo, quasi fosse quel bambino. Ma sapeva più del bambino, sapeva ciò che quello non poteva neppure immaginare, poiché era conscio degli anni e degli eventi che stavano tra quell’ampio campo di fagioli e un tempo lontano nello spazio mille anni-luce. Sapeva, come il ragazzino non poteva sapere, che uomini e donne, nel grande edificio lontano in fondo al campo, e in molte altre strutture simili sparse nel mondo, avevano riconosciuto i semi di un’altra crisi e già allora preparavano la soluzione.

Strano, pensò, che pur avendo una seconda occasione, la razza umana dovesse comunque precipitare verso le crisi e rendersi conto finalmente che l’unica soluzione stava in altri possibili pianeti di altri ipotetici sistemi solari, dove gli uomini avrebbero potuto partire di nuovo da zero, e alcuni tentativi sarebbero falliti, alcuni, forse, sarebbero riusciti.