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Per essere precisi, disse Nave, novecentocinquantaquattro anni, otto mesi e diciannove giorni.

«Questo pianeta,» disse Nicodemus, «è incantevole. Sotto molti aspetti somiglia alla Terra. Il tenore d’ossigeno è un po’ più elevato, la gravità è un po’ inferiore…»

«E sta bene,» disse Horton, bruscamente, «dopo tutti questi anni siamo finalmente atterrati su un pianeta incantevole. E che ne è stato di tutti gli altri pianeti incantevoli? In poco meno di mille anni, muovendoci ad una velocità prossima a quella della luce, avrebbero dovuto…»

«Moltissimi pianeti,» disse Nicodemus. «Ma nessuno era incantevole. Non ce n’era nessuno su cui potesse esistere un umano. Pianeti giovani, con le croste ancora informi, campi di magma ribollente e grandi vulcani, immensi laghi di lava liquida, e il cielo brulicante di nubi scottanti di polveri e di vapori velenosi, ancora niente acqua e pochissimo ossigeno. Pianeti vecchi, declinanti verso la morte, con gli oceani prosciugati, l’atmosfera rarefatta, e nessun segno di vita… se pure la vita vi è mai esistita, era stata cancellata. Enormi pianeti di gas che correvano sulle loro orbite come grosse bilie striate. Pianeti troppo vicini ai loro soli, sferzati dalle radiazioni. Pianeti troppo lontani, con ghiacciai d’ossigeno solidificato, mari d’idrogeno denso. Altri pianeti che in un modo o nell’altro erano sbagliati, avvolti in atmosfere mortali per qualunque forma vivente. E alcuni, pochissimi, troppo ricchi di vita… pianeti-giungla occupati da esseri così famelici e feroci che sarebbe stato un suicidio porvi piede. Pianeti deserti, dove la vita non aveva mai avuto inizio… rocce nude, su cui non si era mai formato l’humus, con pochissima acqua, l’ossigeno fissato nelle pietre erose. Abbiamo girato intorno ad alcuni dei pianeti che abbiamo trovato: ad altri ci siamo limitati a dare un’occhiata. Su alcuni siamo atterrati. Nave ha tutti i dati a tua disposizione, se vuoi una relazione in chiaro.»

«Ma adesso abbiamo trovato un pianeta. E cosa facciamo… lo studiamo ben bene e torniamo indietro?»

No, disse Nave. Non possiamo tornare.

«Ma se siamo partiti per questo. Noi e le altre navi, tutti in cerca di pianeti che la razza umana potesse colonizzare.»

Siamo stati lontano troppo a lungo, disse Nave. Non possiamo tornare indietro. Siamo stati via quasi mille anni. Se ripartissimo immediatamente, impiegheremmo quasi un altro millennio. Forse un po’ meno, perché non rallenteremmo per dare un’occhiata ai pianeti, ma sarebbero circa duemila anni dal momento della partenza. E forse impiegheremmo molto di più, perché la dilatazione del tempo costituirebbe un fattore, e non abbiamo dati attendibili in proposito. Ma ormai, probabilmente, siamo stati dimenticati. Vi saranno state documentazioni, ma ormai, molto probabilmente, sono andate dimenticate o perdute. Al nostro ritorno, saremmo così antiquati che la razza umana non saprebbe che farsene di noi. Di noi e di te e di Nicodemus. Costituiremmo un motivo d’imbarazzo, perché ricorderemmo i tentativi brancolanti di tanti secoli fa. Noi e Nicodemus saremmo tecnologicamente obsolescenti. E saresti obsolescente anche tu, ma in modo diverso… un barbaro venuto dal passato. Saresti superato socialmente, moralmente, politicamente. Forse, secondo i criteri correnti, appariresti come un idiota malvagio.

«Senti,» protestò Horton, «quel che dici non ha senso. C’erano altre navi…»

Forse alcune di esse hanno trovato pianeti adatti, disse Nave, poco dopo la partenza. In tal caso, potrebbero essere ritornate sane e salve alla Terra.

«Ma tu hai proseguito.»

Nave disse: Noi abbiamo eseguito il nostro mandato.

«Vuoi dire che sei andata a caccia di pianeti.»

Siamo andati a caccia di un pianeta particolare. Il tipo di pianeta su cui l’uomo potesse vivere.

«Ed hai impiegato quasi mille anni per trovarlo.»

Non c’erano limiti di tempo per la ricerca, disse Nave.

«Credo di no,» disse Horton, «anche se non ci ho mai pensato. C’erano molte cose cui non abbiamo mai pensato. E molte cose, immagino, che non ci hanno mai detto. Supponiamo che non avessi trovato questo pianeta. Cosa avresti fatto?»

Avremmo continuato a cercare.

«Magari per un milione d’anni?»

Se necessario, per un milione d’anni, disse Nave.

«E adesso che l’abbiamo trovato, non possiamo tornare indietro.»

Infatti, disse Nave.

«E allora, a che serve averlo trovato?» chiese Horton. «Lo troviamo, e la Terra non lo saprà mai. La verità è, credo, che tu non hai nessun interesse a ritornare. Sulla Terra non c’è niente, per te.»

Nave non rispose.

«Avanti,» esclamò Horton. «Ammettilo.»

Nicodemus disse: «Non ti risponderà. Nave si è ammantata di silenziosa dignità. L’hai offesa.»

«Al diavolo Nave,» disse Horton. «Ne ho sentite abbastanza, da loro. Voglio una risposta da te. Nave ha detto che gli altri tre sono morti…»

«Ci fu una disfunzione,» disse Nicodemus. «Circa cento anni dopo la partenza. Una delle pompe smise di funzionare, e i cubicoli si surriscaldarono. Io riuscii a salvare te.»

«Perché me? Perché non uno degli altri?»

«È molto semplice,» disse Nicodemus, ragionevolmente. «Tu eri il numero uno, nella fila. Eri nel cubicolo numero uno.»

«Se fossi stato nel cubicolo numero due, mi avresti lasciato morire.»

«Io non ho lasciato morire nessuno. Sono riuscito a salvare un dormiente. Dopo, per gli altri era troppo tardi.»

«Lo hai fatto in ordine numerico?»

«Sì,» disse Nicodemus. «L’ho fatto in ordine numerico. C’è un modo migliore?»

«No,» disse Horton. «No, non credo. Ma dato che tre di noi erano morti, non si è pensato di rinunciare alla missione e di tornare alla Terra?»

«Non si è pensato a questo.»

«Chi ha preso la decisione? Nave, immagino.»

«Non c’è stata nessuna decisione. Nessuno di noi ne ha mai parlato.»

Era andato tutto storto, pensò Horton. Se qualcuno ci si fosse messo d’impegno, con uno slancio sconfinante nel fanatismo, non sarebbe riuscito a rovinare tutto in modo più completo.

Una nave, un uomo, uno stupido robot dai piedi piatti… Cristo, che spedizione! E per giunta, una spedizione inutile, con biglietto di sola andata. Tanto varrebbe che non fossimo neppure partiti, pensò. Ma se non fossero partiti, si disse, a quest’ora lui sarebbe morto da molti secoli.

Cercò di ricordare gli altri, ma non vi riuscì. Poteva vederli solo vagamente, come attraverso una nebbia. Erano indistinti, confusi. Cercò di delineare i loro volti, e gli parve che non avessero volto. Più tardi, lo sapeva, li avrebbe rimpianti, ma ora non poteva. Non c’era abbastanza, di loro, per rimpiangerli. E non ce n’era il tempo. C’erano troppe cose da fare e da considerare. Mille anni, pensò, e non torneremo indietro. Perché Nave era l’unica che poteva riportarli indietro, e se Nave diceva di no, non c’era niente da fare.

«Gli altri tre?» chiese. «Sono stati sepolti nello spazio?»

«No,» disse Nicodemus. «Trovammo un pianeta dove riposeranno per l’eternità. Vuoi sapere tutto?»

«Se non ti dispiace,» disse Horton.

4.

Dalla piattaforma dell’altopiano su cui Nave si era posata, la superficie planetaria si estendeva verso i nitidi orizzonti lontani, una terra dai grandi ghiacciai azzurri d’idrogeno congelato che scivolavano lungo pendii di roccia nera e nuda. Il sole di quel pianeta era così lontano che pareva soltanto una stella un po’ più grande e luminosa… una stella così affievolita dalla distanza e dall’agonia che non aveva né un nome né un numero. Sulle carte stellari della Terra non vi era neppure un puntolino che ne indicasse la posizione. La sua luce fievole non era mai stata registrata su di una lastra fotografica d’un telescopio terrestre.