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«No,» disse Horton. «Credo di non averlo più.»

«E di non saperlo, anche?»

«E di non saperlo.»

«È così. Vuoi qualche risposta, vero?»

«Che risposta?»

«Di qualunque genere. Una risposta qualunque è meglio di niente. Vai a chiederlo allo Stagno.»

«Lo Stagno? E cosa potrebbe dirmi? È soltanto una massa d’acqua sudicia.»

«Non è acqua. Tu sai che non è acqua.»

«È vero. Non è acqua. Tu sai cos’è?»

«No, non lo so,» disse Shakespeare.

«Tu gli parlavi?»

«Non ho mai osato. Sostanzialmente, sono un vigliacco.»

«Avevi paura dello Stagno?»

«Non è questo. Avevo paura di quel che avrebbe potuto dirmi.»

«Eppure sapevi qualcosa dello Stagno. Immaginavi che avrebbe potuto parlarti. Eppure non lo hai mai scritto.»

«Come lo sai?» chiese Shakespeare. «Non hai ancora letto tutto ciò che ho scritto. Ma hai ragione: non ho mai scritto nulla, a proposito dello Stagno: solo che puzzava. E non ne ho mai scritto perché non volevo pensarci. Mi dava una grande inquietudine. Era più di uno stagno. Anche se fosse stato soltanto acqua, sarebbe stato più di uno stagno.»

«Ma perché l’inquietudine?» chiese Horton. «Perché ti dava questa sensazione?»

«L’uomo è fiero del suo intelletto,» disse Shakespeare. «Si gloria della sua ragione e della sua logica. Ma sono cose nuove, comparse solo in tempi recenti. Prima, aveva qualcosa d’altro: chiamala intuizione, dalle tutti i nomi che vuoi. I nostri antenati preistorici la possedevano, e se ne servivano. Loro sapevano, ma non potevano dirti come lo sapevano. Sapevano di cosa si doveva aver paura e questo, in fondo, è indispensabile per ogni specie che vuole sopravvivere. Di cosa aver paura, che cosa evitare, che cosa si deve lasciare in pace. Se hai questa facoltà, vivi; se non l’hai, no.»

«È il tuo spirito che mi parla? La tua ombra? Il tuo fantasma?»

«Prima dimmi questo,» fece il teschio, sbattendo le mascelle cui mancavano due denti. «Prima dimmi cos’è la vita e cos’è la morte, e poi ti risponderò a proposito dello spirito e dell’ombra.»

23.

Il teschio di Shakespeare era appeso sopra la porta, e li guardava ghignando… e un momento prima, si disse Horton, non ghignava. Aveva parlato con lui, da uomo a uomo. Era stato strano, ma non orribile, e non aveva ghignato. I due denti mancanti erano solo due denti mancanti, ma adesso quell’assenza aveva qualcosa di macabro, di sconvolgente. Era sceso il crepuscolo, e il guizzare del fuoco, riflettendosi sull’osso levigato, dava l’impressione che le mascelle si muovessero ancora, conferiva uno scintillio all’oscurità fonda delle orbite.

«Bene,» disse Nicodemus, guardando le bistecche, «questa faccenda dell’ora di Dio mi ha rovinato la cucina. Le fette di carne sono bruciacchiate.»

«Non importa,» disse Horton. «Preferisco la carne al sangue, ma non importa.»

Accanto a Horton, Elayne sembrava uscire da una trance. «Perché non me l’avevi detto?» chiese in tono d’accusa. «Perché non mi avevi spiegato com’era?»

«È impossibile,» disse Carnivoro. «Come puoi descrivere il rattrappirsi delle viscere…»

«Com’è stato?» chiese Horton.

«Spaventoso,» disse lei. «Ma anche meraviglioso. Come se qualcuno ti avesse portato in vetta ad una montagna cosmica, con l’universo spiegato davanti a te… tutto lo splendore e l’incanto e tutta la tristezza. Tutto l’amore e l’odio, tutta la pietà e l’indifferenza. Tu sei lì, fragile e travolto dal vento che investe i mondi e, all’inizio, ti senti solo e confuso, e hai l’impressione di essere dove non dovresti, ma poi ricordi che non aspiravi ad essere lì, ci sei stato trasportato, e allora tutto sembra giusto. Sai cosa stai guardando, e non è affatto come avresti immaginato… se pure hai mai immaginato di vederlo, e naturalmente non lo hai mai pensato. Stai lì e lo guardi, dapprima senza capire e poi, lentamente, cominci a comprendere un poco, come se qualcuno ti dicesse di che si tratta. E alla fine capisci di più, usando verità di cui non conoscevi l’esistenza, e sei quasi pronto a dire a te stesso che è così, dunque, e poi, prima che tu lo dica, è tutto scomparso. Proprio quando senti di stare per afferrare in parte il significato, tutto è sparito.»

Era così, pensò Horton… o almeno era stato così, le altre volte. Ma questa volta, per lui era stato diverso, come aveva scritto Shakespeare: poteva essere diverso. E la logica, la ragione di quella differenza?

«L’ho cronometrato, questa volta,» disse Nicodemus. «È durato un po’ meno di un quarto d’ora. È sembrato tanto tempo?»

«Di più,» disse Elayne. «Sembrava che durasse per sempre.»

Nicodemus guardò Horton con fare interrogativo. «Non saprei,» disse Horton. «Non ho avuto un’impressione chiara del tempo.»

Il dialogo con Shakespeare non era durato troppo a lungo, ma quando cercò di calcolare con la memoria per quanto tempo era stato nel campo dei fagioli, non fu neppure in grado di formulare un’ipotesi.

«Per te è stato lo stesso?» chiese Elayne. «Hai visto quello che ho visto io? Era questo che non sapevi descrivere?»

«Questa volta è stato diverso. Sono tornato alla mia infanzia.»

«Tutto lì?» chiese Elayne. «Solo un ritorno all’infanzia?»

«Tutto lì,» disse Horton. Non se la sentiva di parlare del dialogo con il teschio. Sarebbe suonato strano e, molto probabilmente, Carnivoro si sarebbe fatto prendere dal panico. Era meglio lasciar stare, decise.

«Quello che voglio,» disse Carnivoro, «è che questa ora di Dio ci dice come riparare il tunnel. Tu sei sicuro,» disse a Nicodemus, «di non potere fare altro.»

«Non so immaginare cosa potrei fare,» disse il robot. «Ho cercato di staccare il coperchio dai comandi, e sembra impossibile. Ho cercato di staccare il quadro con lo scalpello, e quella roccia è più dura dell’acciaio. Lo scalpello rimbalza. Non è roccia normale. Non so come, è stata metamorfosata.»

«Possiamo provare la magia. Tra tutti e quattro…»

«Non conosco nessuna magia,» gli disse Nicodemus.

«Neppure io,» disse Horton.

«Io ne conosco un po’,» disse Carnivoro. «E forse anche la signora.»

«Che specie di magia, Carnivoro?»

«Magia delle radici, magia delle erbe, magia della danza.»

«Sono primitive,» disse Elayne. «Hanno scarsi effetti.»

«Per sua stessa natura, ogni magia è primitiva,» disse Nicodemus. «È l’appello dell’ignorante a potenze di cui si sospetta l’esistenza, ma di cui nessuno è sicuro.»

«Non necessariamente,» disse Elayne. «So di popoli che hanno magie efficaci… magie su cui si può contare. Basate, credo, sulla matematica.»

«Ma non sul nostro tipo di matematica,» disse Horton.

«Infatti. Non sul nostro tipo di matematica.»

«Però non conosci questa magia,» disse Carnivoro. «Non conosci questa matematica.»

«Mi dispiace, Carnivoro. Non ne so nulla.»

«Avete diprezzato la mia magia,» ululò Carnivoro. «Tutti voi mi avete depresso crudelmente. Della mia semplice magia, di foglie e radici e cortecce, voi vi fate beffe con tranquilla decisione. Poi mi dite di un’altra magia che può funzionare, che può aprire il tunnel, ma non la conoscete.»

«Ti ripeto che mi dispiace,» disse Elayne. «Vorrei conoscere quella magia, per aiutarti. Ma noi siamo qui, e quella è altrove, ed anche se potessi andare a cercarla, e trovare coloro che la usano, non sono certa che riuscirei ad ottenere il loro interessamento. Perché, senza dubbio, saranno individui schizzinosi, con cui non è facile parlare.»