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«Non importa un accidente a nessuno,» disse Carnivoro, con trasporto. «Voi tre potete tornare alla nave…»

«Potremmo tornare al tunnel domattina,» disse Nicodemus. «E dargli un’altra occhiata. Potremmo notare qualcosa che finora ci è sfuggito. Dopotutto, ho dedicato tutto il tempo al quadro dei comandi, e nessuno ha fatto attenzione al tunnel vero e proprio. Forse troveremo qualcosa.»

«Lo farai?» chiese Carnivoro. «Davvero lo farai per il buon vecchio Carnivoro?»

E ormai, pensò Horton, è la fine. L’indomani mattina sarebbero andati a ispezionare il tunnel ancora una volta. Non avrebbero trovato niente, e non avrebbero potuto far più niente… però, pensandoci bene, era una frase inesatta: fino a quel momento, infatti, non avevano fatto nulla. Dopo vari millenni, se si accettavano le date di Elayne, avevano raggiunto finalmente un pianeta su cui l’uomo poteva vivere, e si erano precipitati in una missione di salvataggio che era finita in niente. Era illogico pensare così, si disse, ma era la verità. L’unica cosa di valore che avevano trovato erano gli smeraldi, e nella loro situazione, non valeva neppure la pena di raccattarli da terra. Ma forse, ripensandoci meglio, avevano trovato qualcosa che poteva ricompensare del tempo sprecato. Ma si trattava di qualcosa che non potevano rivendicare. In tutta giustizia, l’erede di Shakespeare doveva essere Carnivoro, e questo significava che il volume di Shakespeare spettava a lui.

Levò lo sguardo verso il teschio appeso sopra la porta. Mi piacerebbe avere quel libro, disse al teschio, mentalmente. Mi piacerebbe mettermi tranquillo a leggerlo, cercare di vivere i giorni del tuo esilio, giudicare la tua follia e la tua saggezza, trovando, senza dubbio, più saggezza che follia, perché anche nella follia può esservi talvolta la saggezza, cercare di correlare cronologicamente i brani e le annotazioni che tu hai scritto a casaccio, scoprire che tipo d’uomo eri, e come sei venuto a patti con la solitudine e la morte.

Ho parlato veramente con te? chiese al teschio. Ti sei proteso oltre la dimensione della porta per stabilire un contatto con me, forse, specificamente, per parlarmi dello Stagno? O forse cercavi semplicemente di entrare in contatto con uno qualsiasi, una qualunque entità intellettuale, in grado di rinunciare ad una incredulità naturale e quindi di parlare con te? Chiedilo allo Stagno, hai detto. E come lo si chiede allo Stagno? Ci si avvicina allo Stagno e si dice: Shakespeare mi ha informato che posso parlare con te… quindi avanti, parla? E che ne sai, veramente, dello Stagno? Forse c’è qualcosa che avresti voluto dirmi, ma non ne hai avuto il tempo? Adesso posso chiederti tutto questo, perché non mi risponderai. Comunque, mi aiuta a credere di aver parlato con te, bombardarti adesso di domande che non troveranno risposta da parte di una cosa d’osso sbiancato inchiodata sopra una porta.

A Carnivoro tutto questo non lo hai detto: ma tanto, con lui non parlavi; perché nella tua follia, dovevi avere paura di lui più di quanto lo rivelassi nei tuoi scritti. Eri un uomo strano, Shakespeare, e mi dispiace di non averti potuto conoscere, ma forse ti conosco adesso. Forse ti conosco meglio che se ti avessi incontrato da vivo. Forse meglio di quanto ti abbia conosciuto Carnivoro, perché io sono umano e lui no.

E Carnivoro? Già, e Carnivoro? Perché adesso erano alla fine, e qualcuno doveva decidere cosa fare di Carnivoro. Carnivoro, quel povero cafone, sgradevole e disgustoso… eppure bisognava fare qualcosa per lui. Dopo aver suscitato le sue speranze, non potevano andarsene e abbandonarlo lì. Nave… avrebbe dovuto chiederlo a Nave: ma aveva paura. Non avrebbe neppure cercato di porsi in contatto con Nave, perché se e quando l’avesse fatto, il problema di Carnivoro si sarebbe presentato, e lui conosceva già la risposta. Era una risposta che non voleva ascoltare, che non si sentiva di ascoltare.

«Lo stagno puzza forte, stasera,» disse Carnivoro. «Certe volte puzza di più, e quando il vento spira dalla parte giusta, è insopportabile.»

Quando quelle parole penetrarono nella sua coscienza, Horton si accorse di nuovo degli altri seduti intorno al fuoco; e il teschio di Shakespeare non era altro che una chiazza bianca sopra la porta.

C’era il fetore, l’immonda putredine dello Stagno, e da oltre il cerchio della luce del fuoco veniva una sorta di fruscio. Gli altri l’udirono e girarono la testa nella direzione da cui proveniva il suono. Nessuno parlava, in attesa che il suono si ripetesse.

E si ripeté, e adesso c’era un senso di movimento nell’oscurità, come se una parte della tenebra si fosse mossa: non era un movimento visibile, ma un senso di movimento. Una piccola parte dell’oscurità assunse una lucentezza, come se una sua sfaccettatura fosse divenuta uno specchio e riflettesse la luce del fuoco.

La lucentezza ingrandì e nelle tenebre vi fu un movimento inequivocabile… una sfera di buio più fondo che si avvicinava ondeggiando e frusciando.

Prima era stata solo un’allusione, poi una percezione: e adesso, improvvisamente ed inequivocabilmente, si rivelava… una sfera di tenebra, del diametro d’una sessantina di centimetri, che passava ondeggiando dalla notte al cerchio della luce del fuoco. E il fetore l’accompagnava… un fetore sempre più denso che tuttavia, con l’appressarsi della sfera, sembrava diventare meno pungente.

A tre metri dal fuoco, si fermò ed attese: una sfera nera dal lustro oleoso. Stava lì, semplicemente. Era immobile. Non c’erano fremiti, né pulsazioni: niente indicava che si fosse mai mossa o che fosse capace di muoversi.

«È lo Stagno,» disse Nicodemus, parlando sottovoce, come se non volesse turbarla o spaventarla. «Viene dallo Stagno. Una parte dello Stagno è venuta a farci visita.»

C’era tensione e paura, nel gruppo: eppure, si disse Horton, non era una paura travolgente, piuttosto stupita e sconcertata. Era come, pensò, se la sfera si fosse preoccupata di spaventarli il meno possibile.

«Non è acqua,» disse Horton. «Io ci sono stato, oggi. È più pesante. È come il mercurio, ma non è mercurio.»

«Allora una parte può assumere la forma di sfera,» disse Elayne.

«Quella cosa maledetta è viva,» squittò Carnivoro. «Sta lì, sa di noi, ci spia. Shakespeare dice che c’è qualcosa che non va nello Stagno. Lui ha paura di esso. Non va mai vicino. Shakespeare è un perfettissimo vigliacco. Dice che in momenti come questo, nella vigliaccheria c’è una profonda saggezza.»

«Qui,» disse Nicodemus, «succedono molte cose che noi non comprendiamo. Il tunnel bloccato, l’essere racchiuso nel tempo, e adesso questo. Ho l’impressione che stia per succedere qualcosa.»

«E allora?» chiese Horton alla sfera. «Sta per succedere qualcosa? Sei venuta a dirci questo?»

La sfera non emise alcun suono. Non si mosse. Restò semplicemente lì, in attesa.

Nicodemus le si avvicinò di un passo.

«Lasciala in pace,» disse Horton, bruscamente.

Il robot si fermò.

Il silenzio si protrasse. Non c’era nulla da fare, nulla da dire. Lo Stagno era lì: la prossima mossa spettava a lui.

La sfera fremette, vibrò, e poi si ritrasse, rotolando nell’oscurità senza lasciar tracce anche se, per molto tempo dopo la sua scomparsa, Horton ebbe l’impressione di poterla vedere ancora. Frusciava e sciaguattava mentre si muoveva: e il suono si spense finalmente in lontananza, e il fetore, cui avevano finito per abituarsi, incominciò a disperdersi.

Nicodemus tornò accanto al fuoco e si accovacciò.