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«Perché?» chiese.

«Voleva darci un’occhiata,» ululò Carnivoro. «È venuto a darci un’occhiata.»

«Ma perché?» chiese Elayne. «Perché voleva darci un’occhiata?»

«Chi può sapere cosa vuole uno Stagno?» fece Nicodemus.

«C’è un solo modo per scoprirlo,» disse Horton. «Andrò a chiederlo allo Stagno.»

«Questa è la pazzia più grossa che abbia mai sentito,» disse Nicodemus. «Questo posto deve farti un brutto effetto.»

«Non credo sia una pazzia,» disse Elayne. «Lo Stagno è venuto a farci visita. Verrò con te.»

«No,» disse Horton. «Debbo andare da solo. Tutti voi resterete qui. Nessuno viene con me e nessuno mi segue. È chiaro?»

«Stai a sentire, Carter,» disse Nicodemus, «non puoi precipitarti via così…»

«Lasciatelo andare,» ringhiò Carnivoro. «È simpatico sapere che non tutti gli umani sono come il mio vigliacco amico, là sulla porta.»

Balzò in piedi e rivolse a Horton un saluto brusco, quasi beffardo. «Vai, mio amico guerriero. Vai incontro al nemico.»

24.

Si smarrì due volte, sbagliando a svoltare per il sentiero, ma finalmente arrivò allo stagno, scendendo l’erta ripida, mentre la luce della torcia elettrica si rifletteva sulla dura levigatezza della superficie.

Nella notte c’era un silenzio di morte. Lo Stagno era piatto e spento. Una manciata di stelle sconosciute impolverava il cielo. Guardandosi intorno, Horton scorse il bagliore del fuoco che illuminava la cima di un albero altissimo.

Piantò i tacchi sul gradino di pietra che portava allo Stagno e si chinò.

«Bene,» disse parlando con la voce e con la mente. «Sentiamo.»

Attese, e gli parve che vi fosse un lieve movimento nello Stagno, un’increspatura che non era un’increspatura, e dalla riva opposta giunse un bisbiglio, come un vento che spirasse dolcemente tra le canne. Horton sentì un moto nella sua mente, l’impressione che qualcosa vi prendesse forma.

Attese, e poi la cosa non fu più nel suo cervello, ma nello spostamento di coordinate di cui non sapeva nulla, solo che dovevano esservi in gioco delle coordinate, e si sentì spiazzato. Aleggiava, o almeno così gli pareva, come un essere disincarnato, in un vuoto sconosciuto contenente un solo oggetto, una sfera azzurra brillante nella luce del sole che scendeva sopra la sua spalla sinistra, o dove doveva essere la spalla sinistra, perché non era neppure certo di avere un corpo.

La sfera si muoveva verso di lui, oppure era lui che precipitava verso la sfera… non riusciva a capirlo. Comunque, stava diventando più grande. E mentre cresceva, l’azzurrità della superficie si chiazzava di screziature bianche irregolari, ed egli comprese che la sfera era un pianeta, oscurato in parte dalle nubi mascherate fino a quel momento dall’azzurro intenso della superficie.

Ormai non c’era dubbio: stava precipitando attraverso l’atmosfera del pianeta, e tuttavia la caduta sembrava così controllata che egli non provava apprensione. Non era esattamente una caduta: era veleggiare verso il basso, come un pappo di cardo che fluttuasse nell’aria. La forma della sfera era scomparsa, il suo disco era divenuto così immane da riempire e superare la sua visuale. Sotto di lui stava ora la grande pianura azzurra spennellata del bianco delle nubi. Le nubi e nient’altro, nessuna traccia di una massa continentale.

Ora si muoveva più rapidamente, nel precipitare, ma continuava ad avere la sensazione di essere un seme di cardo. Quando fu più vicino alla superficie, vide che l’azzurrità era increspata… acqua mossa dall’infuriare del vento che la spazzava.

Non era acqua, gli disse qualcosa. Liquido, ma non acqua. Un mondo di liquido, un talassopianeta, un mondo fluido senza continenti né isole.

Liquido?

«Dunque è così,» disse, parlando con la bocca del corpo che stava accovacciato sulla riva dello Stagno. «È di là che vieni. È questo che sei.»

E tornò ad essere un seme lanuginoso di cardo librato su un pianeta, intento a osservare, sotto di lui, un grande movimento nell’oceano, con il liquido che si aggobbiva e saliva, arrotondandosi e modellandosi in una sfera, forse di parecchi chilometri di diametro, ma per il resto simile a quella che era venuta in visita all’accampamento. Vide che la sfera si sollevava, si innalzava nell’aria, dapprima lentamente, e poi accelerando, fino a quando la vide venire verso di lui come una gigantesca palla di cannone. Non lo colpì, ma non lo mancò di molto. Il suo essere di seme-di-cardo venne afferrato e sbatacchiato dallo spostamento d’aria causato dal passaggio della sfera liquida. Molto più indietro, udiva il lungo rombo di tuono, mentre l’atmosfera lacerata si riprecipitava scrosciando nel vuoto creato dal passaggio del globo.

Si voltò e vide che il pianeta si allontanava rapidamente, ripiombava nello spazio. Era strano, pensò… che al pianeta accadesse questo. Ma quasi subito si rese conto che non era il pianeta a spostarsi, ma lui. Era stato catturato dall’attrazione della massiccia palla da cannone liquida e, rimbalzando, trascinato dalla sua gravità, la seguiva negli abissi dello spazio.

Tutto appariva assurdo. Gli pareva di aver perduto ogni senso d’orientamento. Ad eccezione della palla da cannone liquida e delle stelle lontane, non c’erano punti di riferimento, e anche quelli esistenti avevano scarso significato. Gli sembrava di aver perduto la misura del tempo, e lo spazio non era più misurabile: e sebbene egli conservasse qualcosa dell’identità personale, si era ridotta a una minuscola fiammella. Ecco cosa succede, si disse, compiaciuto, quando non hai corpo. Un milione d’anni-luce possono essere un passo, e un milione d’anni solo lo scandire di un secondo. La sola cosa di cui era conscio era il suono dello spazio, simile allo scroscio di un oceano che precipitasse da una cascata alta mille miglia… e un altro suono, una cantilena, un frinire di grilli, quasi troppo acuto perché il suo udito lo captasse: e quello, si disse, era il sospiro del lampo di calore balenante al di qua dell’infinito, e il bagliore di quel lampo, lo sapeva, era l’emblema del tempo.

All’improvviso, mentre distoglieva un attimo lo sguardo, si accorse che il globo lanciato nello spazio aveva trovato un sistema solare, e sfrecciava attraverso una densa atmosfera, per girare intorno ad uno dei pianeti. Mentre guardava, il globo si deformò, da una parte, si aggobbì formando un’altra sfera più piccola, che si staccò e cominciò ad orbitare intorno al pianeta, mentre la sfera madre, più grande, descrisse una curva per avventarsi di nuovo nello spazio. Nel curvare, lo sganciò e lo lanciò lontano, ed egli si ritrovò, libero, a precipitare verso la superficie scura del pianeta sconosciuto. La paura affondò gli artigli nel suo essere: aprì la bocca per urlare, e si stupì di avere ancora una bocca.

Ma prima che potesse lanciare l’urlo, non ebbe più bisogno di urlare, perché era ritornato entro il suo corpo, accosciato in riva allo Stagno.

Aveva gli occhi chiusi e li aprì, con la sensazione di dover forzare le palpebre. Riusciva a vedere abbastanza bene, nonostante l’oscurità della notte. Lo Stagno giaceva placido nella sua conca rocciosa, uno specchio senza increspature che rifletteva la luce delle stelle sparpagliate lassù in cielo. Sulla destra si levava la collina, un’ombra conica nell’oscurità, e sulla sinistra, il dorsale su cui sorgeva la città in rovina sembrava un’enorme bestia nera accovacciata.

«Dunque è così,» disse, parlando sottovoce allo Stagno, non più di un mormorio, come se fosse un segreto che doveva restare tra loro. «Una colonia del pianeta liquido. Forse una tra molte colonie. Ma perché? Cosa ci guadagna, il pianeta, dalle colonie? Un oceano vivente che lancia piccoli segmenti di se stesso, per seminare altri sistemi solari. E quando li ha seminati, cosa ci guadagna? Cosa spera di guadagnare?»

Tacque, accosciato nel silenzio, un silenzio così profondo da risultare snervante, così profondo e incontaminato che gli pareva ancora di udire la cantilena acuta, sibilante del tempo.