«Parlami,» implorò. «Perché non mi parli? Puoi mostrare e spiegare; perché non puoi parlare?»
Perché questo non bastava, si disse. Non bastava per sapere cosa poteva essere lo Stagno e come era finito lì. C’era soltanto un inizio, un fatto fondamentale, che non chiariva il movente e la speranza e lo scopo, e questi erano importanti.
«Senti,» disse, ancora supplichevole, «tu sei una vita, ed io un’altra vita. Per nostra natura non possiamo farci male a vicenda, non abbiamo neppure ragione di desiderarlo. Perciò non abbiamo nulla da temere. Senti, la metterò così… c’è qualcosa che posso fare per te? C’è qualcosa che vuoi fare per me? O in mancanza di questo, com’è possibile poiché operiamo su due piani tanto diversi, perché non cerchiamo di parlarci, di imparare a conoscerci meglio? Tu devi possedere un’intelligenza. Sicuramente questa seminagione dei pianeti non è solo un comportamento istintivo, l’azione di una pianta che lancia i semi perché mettano radici altrove, come la nostra venuta qui è qualcosa di più della cieca disseminazione del nostro seme culturale.»
Rimase in attesa, e vi fu di nuovo un fremito nella sua mente, come se qualcosa vi fosse penetrato e si sforzasse di formarvi un messaggio, di tracciarvi un’immagine. Lentamente, faticosamente, l’immagine crebbe e si strutturò, dapprima come un fremito, poi come una chiazza sfuocata, e infine, consolidandosi in una rappresentazione vignettistica che cambiava e cambiava e cambiava, divenendo più chiara e definitiva ad ogni cambiamento, fino a quando gli parve di essersi sdoppiato… due lui accosciati lì accanto allo Stagno. Ma uno dei due teneva in mano una bottiglia, la stessa che aveva preso nella città, e si chinava ad immergerla nel liquido dello Stagno. Affascinato, restò a guardare — i due lui restarono a guardare — mentre il collo della bottiglia gorgogliava, eruttando uno spruzzo di bollicine, l’aria estromessa forzatamente dal liquido dello Stagno che vi entrava.
«Va bene,» disse un Horton. «Va bene: e poi, che debbo fare?»
L’immagine cambiò, e l’altro lui, reggendo delicatamente la bottiglia, salì la rampa di Nave, anche se Nave era venuta male, era sghemba e storta, una rappresentazione mediocre di Nave come le incisioni della bottiglia erano raffigurazioni mediocri degli esseri che intendevano ritrarre.
Ormai l’altro se stesso era entrato nella Nave, e la rampa si sollevava e la Nave s’innalzava dal pianeta, puntando verso lo spazio.
«Dunque vuoi venire con noi,» disse Horton. «Per amor di Dio, c’è qualcosa su questo pianeta che non voglia venire con noi? Ma così poco di te, solo una fiasca.»
Questa volta l’immagine si formò rapida nella sua mente… un diagramma che mostrava quel lontano pianeta liquido e molti altri pianeti con globi di liquido che li raggiungevano o li lasciavano, e piccole gocce cadute delle sfere discendenti sui pianeti seminati. Il diagramma cambiò: apparvero linee che partivano da tutti i pianeti seminati e dal pianeta liquido, e si orientavano verso un punto dello spazio, unendosi là dove un cerchio era tracciato intorno alla congiunzione. Le linee sparirono, ma il cerchio rimase, e altre linee vennero tracciate rapidamente, per convergere al suo interno.
«Vuoi dire…?» chiese Horton, e l’immagine si ripeté.
«Inseparabile?» chiese Horton. «Vuoi dire che sei uno solo? Che non siete molti, ma uno solo? Che vi è un solo io? Non un ‘noi’, ma un unico ‘io’? Che tu, qui davanti a me, sei solo un’estensione di un’unica vita?»
Il riquadro del diagramma diventò bianco.
«Vuoi dire che è esatto?» chiese Horton. «È questo che intendevi?»
Il diagramma svanì dalla sua mente, e fu sostituito da uno strano sentimento di felicità, di soddisfazione per un problema risolto. Non una parola, non un segno. Solo la sensazione di aver ragione, di aver centrato il significato.
«Ma io parlo con te,» disse. «E tu sembri capire. Come mai mi capisci?»
Senti di nuovo il fremito nella mente, ma questa volta non si formò alcuna immagine. Vi furono guizzi, e figure vaghe, e poi tutto svanì.
«Quindi,» disse Horton, «non sei in grado di dirmelo.» Ma, pensò, forse non ce n’era bisogno. Doveva saperlo lui stesso. Poteva parlare con Nave, tramite il congegno, qualunque cosa fosse, che era innestato nel suo cervello, e forse qui entrava in gioco un principio affine. Lui e Nave comunicavano a parole, perché entrambi conoscevano le parole. Avevano un mezzo di comunicazione comune, ma con Stagno quel mezzo non esisteva. Perciò Stagno, afferrando parte del significato dei pensieri da lui formati mentalmente mentre parlava, i pensieri fratelli delle sue parole, aveva ripiegato sulla forma più fondamentale di comunicazione, le immagini. Immagini dipinte sulla parete di una grotta, incise sul vasellame, disegnate sulla carta… immagini nella mente. L’espressione dei processi di pensiero.
Credo che non abbia importanza, si disse. Possiamo comunicare. Le idee possono varcare la barriera tra noi. Ma era così pazzesco, pensò… una struttura biologica di molti tessuti diversi che parlava con una massa di liquido biologico. E non solo con quei litri di liquido racchiusi nella conca rocciosa, ma con i miliardi e miliardi di ettolitri di liquido di quel pianeta lontano.
Si mosse, cambiò posizione: si sentiva i muscoli delle gambe aggranchiti.
«Ma perché?» chiese. «Perché vuoi venire con noi? Non per creare un’altra minuscola colonia… una colonia grande come un secchio su qualche altro pianeta che forse raggiungeremo, magari tra qualche secolo. Non ha senso. Devi avere sistemi molto migliori per creare le tue colonie.»
Rapidamente, l’immagine prese forma nella sua mente… il pianeta liquido lucente nella sua azzurrità devastante contro lo sfondo nero dello spazio, e le tante sottili linee irregolari che ne partivano, dirette verso altri pianeti. E mentre vedeva le linee serpeggiare attraverso il diagramma, Horton credette di capire che i pianeti verso cui si dirigevano erano quelli su cui il mondo liquido aveva creato colonie. Stranamente, pensò, quelle linee irregolari somigliavano un po’ al segno convenzionale con cui gli umani rappresentavano i fulmini, e si rese conto che Stagno aveva preso in prestito da lui certe convenzioni, per facilitare la comunicazione.
Uno dei molti pianeti del diagramma sfrecciò verso di lui, ingrandendosi più degli altri: e Horton vide che non era un pianeta, era Nave, ancora sghemba, ma riconoscibile; e uno dei fulmini le si infrangeva contro, rimbalzava e veniva sfrecciando verso di lui. Si chinò, istintivamente, ma non fu abbastanza svelto, e il fulmine lo colpì in mezzo agli occhi. Ebbe la sensazione di disgregarsi, di venire scagliato nell’universo, spogliato e squarciato. E mentre si disperdeva nel cosmo, una grande pace discese da chissà dove e lo avvolse dolcemente. In quell’istante vide e comprese. Poi tutto sparì e lui si ritrovò nel proprio corpo, sulla riva rocciosa dello Stagno.
L’ora di Dio, pensò… è incredibile. Eppure, ripensandoci, gli appariva più credibile e più logico. Il corpo umano, tutti i corpi biologici complicati, avevano un sistema nervoso che era in effetti una rete di comunicazione. E sapendo questo, perché doveva rifiutare il pensiero di un’altra rete di comunicazione, che operava attraverso gli anni-luce, per collegare i molti segmenti dispersi di un’altra intelligenza? Un segnale, per ricordare ad ogni colonia remota che era ancora e sarebbe rimasta parte dell’organismo.
L’effetto di una fucilata, si era detto prima… colto dalla rosa dei pallini sparati contro qualcosa d’altro. E adesso sapeva che quel qualcosa d’altro era Stagno. Ma se era stato solo un effetto secondario, perché adesso Stagno voleva includere lui e Nave nella rosa dei pallini dell’ora di Dio? Perché voleva che prendesse a bordo un secchio del suo liquido? Per fornire un bersaglio che avrebbe inserito lui e Nave nell’ora di Dio? Oppure aveva frainteso?