«Ti ho frainteso?» chiese allo Stagno: e in risposta, provò di nuovo la dispersione, lo squarciamento e la pace. Strano, pensò, prima non aveva conosciuto la pace, ma solo paura, e confusione. La pace e la comprensione, anche se questa volta era venuta solo la pace, non la comprensione, ed andava bene così, pensò Horton, perché anche se l’aveva intuita, non si era fatto un’idea della comprensione, aveva avuto solo la conoscenza, l’impressione che la comprensione ci fosse e che, con il tempo, fosse possibile raggiungerla. Per lui la comprensione era stata sconcertante come tutto il resto. Ma non per tutti, si disse: Elayne, per un istante, aveva afferrato la comprensione, istintivamente, per poi smarrirla di nuovo.
Stagno offriva qualcosa, a lui ed a Nave, e sarebbe stato scortese vedere nell’offerta qualcosa di diverso del desiderio che spingeva un’intelligenza a dividere con un’altra un po’ della sua conoscenza e della sua intuizione. Come aveva detto a Stagno, non poteva esserci conflitto tra due forme di vita tanto dissimili. Data la natura delle differenze, non poteva esserci tra loro né concorrenza né antagonismo. Eppure, in fondo alla sua mente, udiva il tintinnio metallico dei campanelli d’allarme incorporati in ogni cervello umano. Era ingiusto, si disse rabbiosamente, era indegno: ma il tintinnio continuava e continuava. Non ti rendere vulnerabile, scandivano i campanelli, non esporre la tua anima, non fidarti di nulla fino a quando un’esperienza ripetuta non ti dia la triplice certezza che non te ne verrà alcun male.
Tuttavia, si disse, forse l’offerta di Stagno poteva non essere del tutto altruista. Poteva esservi qualcosa dell’umanità, qualche conoscenza, qualche prospettiva o punto di vista, qualche giudizio etico o valutazione storica, che Stagno poteva utilizzare. Provò uno slancio d’orgoglio al pensiero che l’umanità potesse donare qualcosa a quell’intelligenza insospettata, dimostrando che le entità intelligenti, per quanto dissimili, potevano trovare o crearsi una base comune.
A quanto sembrava, Stagno offriva, per chissà quale ragione, un dono molto prezioso nella sua scala dei valori… non un gingillo vistoso quale una civiltà arrogante e più grande poteva offrire a un barbaro. Shakespeare aveva scritto che l’ora di Dio poteva essere un meccanismo d’insegnamento: e avrebbe potuto esserlo, naturalmente. Ma poteva anche essere, pensò Horton, una religione. O semplicemente un segnale di riconoscimento, un richiamo del clan, una convenzione per ricordare a Stagno ed a tutti gli altri Stagni della galassia, l’unità, l’identità di tutti, tra loro e il pianeta che li aveva generati. Un segno di fratellanza, forse… e se era così, allora lui, e per suo tramite la razza umana, stavano ricevendo l’offerta di una partecipazione in prova alla confraternita.
Ma era più di un semplice segnale di riconoscimento, ne era certo. La terza volta che l’aveva investito, lui non era stato avviato nell’esperienza simbolica vissuta in precedenza, ma in una scena della sua infanzia e in un’umanissima fantasia in cui aveva parlato con il teschio di Shakespeare. Era stato soltanto un avvio, oppure era avvenuto perché il meccanismo (il meccanismo?) responsabile dell’ora di Dio si era aperto la strada nella sua mente e nella sua anima, esaminando e sondando e analizzando come aveva mostrato di fare quelle prime due volte? E qualcosa del genere, ricordò, l’aveva provato anche Shakespeare.
«C’è qualcosa che vuoi?» chiese. «Tu fai questo per noi… cosa possiamo fare per te?»
Attese la risposta, ma non venne. Stagno rimase scuro e placido, mentre la luce delle stelle ne screziava la superficie.
Tu fai questo per noi, aveva detto; cosa possiamo fare per te? L’aveva detto come se l’offerta di Stagno fosse qualcosa di grande valore, qualcosa di necessario. Ma lo era? si chiese. Era qualcosa di necessario, di voluto? O non era forse qualcosa di cui potevano fare a meno, felicemente a meno?
E si vergognò. Il primo contatto, pensò. Poi capì di avere sbagliato. Primo contatto per lui e Nave, ma forse non per Stagno e i molti altri Stagni su molti altri pianeti, né per molti altri umani. Da quando Nave aveva lasciato la Terra, l’uomo si era sparso nella galassia, e quelle schegge d’umanità dovevano avere avuto molti altri contatti con esseri strani e meravigliosi.
«Stagno,» disse. «Ti ho parlato. Perché non mi hai risposto, Stagno?»
Un lieve fremito gli passò nella mente, un fremito soddisfatto, come il sospiro sommesso di un cucciolo che si accovaccia per dormire.
«Stagno!» disse Horton.
Non ebbe risposta. Il fremito non si ripeté. Ed era finito, era tutto? Forse Stagno era stanco. Gli sembrava ridicolo che una cosa come Stagno potesse essere stanca.
Si alzò in piedi e i muscoli aggranchiti delle gambe gridarono di sollievo. Ma non si mosse subito: restò lì ad ascoltare lo sbalordimento che tuonava dentro di lui.
Era rimasto deluso, lo ricordava, alla prima occhiata data al pianeta, deluso della sua mancanza di alienità, e l’aveva giudicato nient’altro che una Terra sciatta. A ben vedere, disse, difendendo quella prima impressione, era abbastanza sciatto.
Adesso che era il momento di andare, adesso che era stato congedato, provava una strana riluttanza ad allontanarsi. Era come se, avendo stabilito un’amicizia nuova, gli dispiacesse dire addio. Era un termine errato, e lo sapeva: non era un’amicizia. Cercò la parola esatta: ma non gliene venne in mente nessuna.
Poteva mai esistere una vera amicizia, si chiese, un’amicizia tra due intelligenze così completamente diverse? Potevano trovare quel terreno comune, quell’armonia, avrebbero mai potuto dirsi: Sono d’accordo con te… forse hai affrontato il concetto di un’umanità comune e di una comune filosofia di un punto di vista diverso, ma la tua conclusione coincide con la mia?
Era improbabile nei dettagli, si disse. Ma sulla base di vasti principi, forse era possibile.
«Buonanotte, Stagno,» disse. «Sono lieto di averti finalmente incontrato. Spero che ci andrà bene a tutti e due.»
Risalì lentamente la riva rocciosa e si avviò per il sentiero, usando la torcia elettrica per ritrovare la strada.
Quando aggirò una curva, il raggio di luce inquadrò una figura bianca. Spostò la lampada. Era Elayne.
«Ti sono venuta incontro,» disse lei.
Horton le si avvicinò. «È stata una sciocchezza,» disse. «Potevi smarrirti.»
«Non me la sentivo di restare,» disse lei. «Dovevo cercarti. Ho paura. Sta per accadere qualcosa.»
«Ancora quel senso di consapevolezza?» chiese Horton. «Come quando abbiamo trovato l’essere racchiuso nel tempo?»
Elayne annuì. «Immagino di sì. Mi sento inquieta, nervosa. Come se stessi da qualche parte, in attesa di spiccare un balzo, ma senza sapere da che parte saltare.»
«Dopo quello che è successo prima,» disse lui, «sono disposto a crederti. À credere alla tua intuizione. Oppure è più forte di un’intuizione?»
«Non so,» disse Elayne. «È così forte da spaventarmi… disperatamente. Mi domando… passeresti la notte con me? Ho una coperta grande. Vuoi dividerla con me?»
«Ne sarei lieto ed onorato.»
«Non solo perché siamo una donna e un uomo,» disse lei. «Anche se, credo, c’entra anche questo. Ma perché siamo due esseri umani… i soli esseri umani. Abbiamo bisogno l’una dell’altro.»
«Sì,» disse lui. «È vero.»
«Tu avevi una donna. Hai detto che gli altri sono morti…»
«Helen,» disse Horton. «È morta da centinaia d’anni, ma per me è stato solo ieri.»
«Perché eri ibernato?»
«Sì. Il sonno cancella il tempo.»
«Se vuoi, puoi fingere che io sia Helen. Non mi dispiacerà.»
Horton la guardò. «Non fingerò,» disse.
25.
Ed ecco che svanisce la tua teoria, disse lo scienziato al monaco, sulla mano di Dio che ci sfiora la fronte.