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L’essere-nel-tempo, forse, suggerì il monaco. L’intelligenza che avevamo percepito era molto fioca, estremamente sottile. Come se cercasse di nascondersi per non farsi scoprire.

Non credo, disse lo scienziato. Una cosa racchiusa nel tempo, direi, dovrebbe essere impercettibile. Non riesco a pensare ad un isolamento più efficace di uno schermo di tempo bloccato. La cosa più. terribile, per quanto riguarda il tempo, è che non lo conosciamo affatto. Spazio, materia ed energia… sono fattori che possiamo fingere di riconoscere, o almeno possiamo accettarne teoricamente i valori teorici. Il tempo è il mistero assoluto. Non possiamo essere certi che sia attuale. Non ha un manico per cui possiamo afferrarlo per esaminarlo.

Quindi può esserci un’altra intelligenza… un’intelligenza sconosciuta?

Non m’importa, disse la gran dama. Non ho nessun desiderio di conoscerla. Spero che il bel rompicapo in cui siamo coinvolti finisca presto, e che possiamo andarcene di qui.

Non ci vorrà molto, disse il monaco. Ancora poche ore, forse. Il pianeta è chiuso, e non c’è altro da fare. Domattina, andranno a vedere il tunnel e si renderanno conto che non c’è niente da fare. Ma prima che questo avvenga, c’è una decisione da prendere. Carter non ce lo ha chiesto perché non osa. Ha paura della nostra risposta.

La risposta è no, disse lo scienziato. Ver quanto ci dispiaccia, deve essere no. Carter ci giudicherà duramente. Potrà dire che abbiamo perduto la nostra umanità insieme ai nostri corpi, che conserviamo solo la freddezza del nostro intelletto. Ma sarà la sua debolezza a parlare: dimenticherà che dobbiamo essere duri, che la debolezza non ha parte nel gioco, lontano dal condizionamento del nostro pianeta. E inoltre, non sarebbe un favore che renderemmo al Carnivoro. Trascinerebbe un esistenza squallida in questa gabbia metallica, con Nicodemus che lo detesta e che lui detesta e di cui forse ha paura… e questo getterebbe olio sul fuoco della sua vergogna: il pensiero che un guerriero famoso, uccisore di tanti mostri malvagi, si sia ridotto a temere un meccanismo fragile come Nicodemus.

Ed a ragione, disse il monaco, perché senza dubbio Nicodemus, con l’andar del tempo, lo ucciderebbe.

È così rozzo, disse la gran dama, con un brivido nel pensiero, così privo di sensibilità, senza delicatezza né premure…

Di chi parli? chiese il monaco. Carnivoro o Nicodemus?

Oh, non Nicodemus. Mi sembra così carino.

26.

Stagno gridò di terrore.

Udendolo con i margini della sua mente, Horton si mosse nel tepore e nella vicinanza, l’intimità e la nudità, aggrappandosi alla presenza di un altro umano… una donna, ma l’umanità aveva importanza quanto la femminilità, perché in quel luogo erano i due unici umani.

Stagno gridò di nuovo, un’ondulazione stridula di allarme, che gli affondò nel cervello. Horton si levò a sedere sulla coperta.

«Che c’è, Carter Horton?» chiese insonnolita Elayne.

«È Stagno,» disse lui. «È successo qualcosa.»

Il primo rosseggiare dell’aurora saliva il cielo orientale, spargendo una mezza luce spettrale in cui spiccavano nebulosamente gli alberi e la casa di Shakespeare. Il fuoco si era ridotto a un mucchio di braci che ammiccavano con occhi rossosangue. Oltre il fuoco stava ritto Nicodemus, rivolto in direzione dello Stagno. Era eretto e rigido, all’erta.

«Ecco i tuoi calzoni,» disse Elayne. Horton tese la mano per prenderli.

«Cosa c’è, Nicodemus?» chiese.

«Qualcosa ha urlato,» disse il robot. «Non si udiva. Ma si percepiva l’urlo.»

Infilandosi i calzoni, Horton rabbrividì nel freddo dell’alba.

Il grido si ripeté, più disperato di prima.

«Guardate cosa sta arrivando dal sentiero,» disse Elayne, con voce tesa.

Horton si voltò a guardare e deglutì. Erano tre. Erano bianchi e lisci e sembravano lumache, erette, untuose e ripugnanti, come si possono trovare sotto una pietra rovesciata. Avanzavano rapidamente, balzellando sull’estremità inferiore affusolata. Non avevano piedi, ma sembrava che non ne avessero bisogno. Non avevano né braccia né volti… erano solo grasse lumache felici, che saltellavano rapidamente su per il sentiero che proveniva dal tunnel.

«Altri tre naufraghi,» disse Nicodemus. «Qui si sta formando una vera colonia. Come mai, secondo voi, ne arrivano tanti, attraverso quel tunnel?»

Carnivoro uscì incespicando dalla porta della Casa di Shakespeare. Si stirò e si grattò.

«Che diavolo sono, loro?» chiese.

«Non si sono presentati,» disse Nicodemus. «Sono appena comparsi.»

«Buffi, no?» fece Carnivoro. «Non hanno piedi. Saltellano.»

«Sta succedendo qualcosa,» disse Elayne. «Qualcosa di tremendo. L’ho sentito ieri sera, ricordatelo, che stava per accadere qualcosa.»

Le tre lumache avanzarono per il sentiero, senza badare a coloro che stavano intorno al fuoco, e quasi sfiorandoli li superarono, per prendere il sentiero che conduceva allo Stagno.

La luce ad oriente s’era ravvivata, e lontano, nella foresta, qualcosa emise un suono, come se qualcuno facesse strusciare un bastone lungo una staccionata.

Un altro grido di Stagno lacerò la mente di Horton. Si lanciò a corsa giù per il sentiero che portava alla conca, e il Carnivoro lo raggiunse, a grandi balzi.

«Vuoi rivelarmi,» chiese, «cos’è accaduto per causare eccitazione e tanto correre?»

«Stagno è nei guai.»

«E come può essere nei guai? Qualcuno gli tira sassi?»

«Non lo so,» disse Horton, «ma sta urlando disperatamente.»

Il sentiero s’incurvava, superando il costone. Sotto di loro stava lo Stagno, e più oltre la collina conica. Stava succedendo qualcosa alla collina. Si sollevava e si squarciava, e da essa si stava levando qualcosa di scuro, di orribile. Le tre lumache erano rannicchiate vicine vicine, sulla riva.

Carnivoro accelerò, scendendo a balzi rapidi il sentiero. Horton gli gridò: «Torna indietro, sciocco! Torna indietro, pazzo!»

«Horton, guarda!» gridò Elayne. «Non la collina. Sul dorsale della città.»

Uno degli edifici, vide Horton, si era frantumato, i muri erano crollati, e ne stava uscendo un essere che scintillava al sole mattutino.

«È il nostro essere nel tempo,» disse Elayne. «Quello che abbiamo trovato noi.»

Vedendolo nel blocco di tempo congelato, Horton non aveva potuto discernere la forma: ma adesso, liberato dalla sua prigione, appariva come uno splendore.

Le grandi ali si spiegavano, e la luce vi si rifrangeva in un arcobaleno, come se fossero fatte di innumerevoli, minuscoli prismi. La testa dal becco rapace era sorretta da un lungo collo: e sembrava, pensò Horton, che quella testa fosse coperta da un elmo incastonato di gemme. Lunghi artigli scintillanti si estendevano dalle zampe pesanti, e la coda era irta di spine aguzze e lucenti.

«Un drago,» disse Elayne, sottovoce. «Come i draghi delle vecchie leggende terrestri.»

«Forse,» disse Horton. «Nessuno sa cosa fossero i draghi, ammesso che esistessero.»