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Nave, chiese Nicodemus, è tutto ciò che possiamo fare?

Non possiamo far altro, disse Nave.

Mi sembra una crudeltà lasciarli qui, in questo posto desolato.

Cercavamo un luogo solitario, per loro, disse Nave, un luogo di solitudine e di dignità, dove niente li troverà e li disturberà per studiarli o per metterli in mostra. Questo glielo dobbiamo, robot; ma è tutto ciò che possiamo dar loro.

Nicodemus stava eretto accanto alla triplice bara, cercando di fissare per sempre quel luogo nella sua mente, anche se, mentre scrutava il pianeta, si rendeva conto che c’era poco da fissare. Lì c’era una monotonia mortale: dovunque si guardasse, tutto pareva identico. Forse, pensò, è meglio così… potranno restare qui, anonimi, protetti dall’irreperibilità del luogo del loro ultimo riposo.

Non vi era cielo. Dove avrebbe dovuto essere il cielo, vi era soltanto la nera nudità dello spazio, illuminata da un denso sprazzo di stelle sconosciute. Quando lui e Nave se ne fossero andati, pensò, per millenni e millenni quelle stelle d’acciaio, prive di scintillii, avrebbero fissato i tre che giacevano nella bara; non per vegliare su di loro ma per spiarli, con lo sguardo gelido di vecchi, muffiti aristocratici che osservano con fredda disapprovazione gli intrusi insinuatisi nel loro ambiente. Ma la disapprovazione non avrebbe avuto importanza, pensò Nicodemus, perché ormai non c’era più nulla che potesse far loro del male. Niente poteva far loro del male, niente poteva aiutarli.

Avrebbe dovuto dire una preghiera per loro, sebbene non ne avesse mai recitata una e non avesse mai neppure pensato di pregare. Tuttavia temeva che una sua preghiera non sarebbe stata accettabile, né per gli umani che giacevano lì, né per qualunque divinità che potesse tendere l’orecchio per udirla. Ma era un gesto… una speranza lieve ed incerta che, chissà dove, esistesse ancora un’entità d’intercessione.

E se avesse pregato, che avrebbe potuto dire? Signore, noi ti affidiamo queste creature…

E quando avesse detto così? Quando avesse fatto una buona partenza?

Potresti spiegargli, disse Nave. Potresti fargli capire l’importanza delle creature per cui ti preoccupi. Oppure potresti supplicare e discutere a nome loro, che sono ormai al di là di ogni supplica e di ogni discussione.

Ti burli di me, disse Nicodemus.

Noi non ci burliamo di te, disse Nave. Noi siamo al di là di ogni ironia.

Dovrei dire qualche parola, continuò Nicodemus. Loro se l’aspetterebbero, da me. La Terra se lo aspetterebbe. Un tempo eravate umani. Direi che in un’occasione come questa dovrebbe esservi un po’ d’umanità in voi.

Siamo addolorati, disse Nave. Piangiamo. Proviamo un senso di tristezza. Ma ci rattrista la morte, non l’idea di lasciare i morti in questo luogo. A loro non importa dove li lasciamo.

Bisogna dire qualcosa, insistette tra sé Nicodemus. Qualcosa di solenne, di ufficiale, un rituale studiato, recitato decorosamente, perché resteranno qui, per sempre, polvere della Terra trapiantata. Sebbene sia stato logico cercare per loro un luogo solitario, non dovremmo abbandonarli qui. Avremmo dovuto cercare un pianeta verde e piacevole.

Non vi sono, disse Nave, pianeti verdi e piacevoli.

Poiché non trovo parole adeguate da pronunciare, disse il robot a Nave, ti dispiace se mi trattengo un poco? Dovremmo avere almeno, nei loro confronti, il riguardo di non scappare via in fretta.

Resta, disse Nave. Abbiamo tutta l’eternità.

«E sai,» disse Nicodemus a Horton, «non sono riuscito a dir nulla.»

Nave parlò. Abbiamo un visitatore. È uscito dalle colline e attende vicino alla rampa. Dovresti uscire, andargli incontro. Ma sii cauto, e prendi le armi. Si direbbe un brutto cliente.

5.

Il visitatore si era fermato a cinque o sei metri dalla base della rampa e li aspettava, quando Horton e Nicodemus uscirono per riceverlo. Era alto come un umano, e bipede. Le braccia, che pendevano inerti lungo i fianchi, non erano concluse da mani, ma da grovigli di tentacoli. Non portava indumenti. Il corpo era ricoperto da un vello rado. Che fosse un maschio, era aggressivamente chiaro. La testa sembrava un teschio scarnito, senza capelli o pelame, e la pelle era tesa sulla struttura ossea. Le mandibole erano pesanti, allungate in un muso massiccio. Dalla mascella superiore sporgevano zanne aguzze, un po’ simili a quelle dell’antica tigre dai denti a sciabola della Terra. Le lunghe orecchie appuntite, incollate al cranio, sovrastavano rigide la testa calva, ed erano coronate da ciuffi rossovivi.

Quando i due arrivarono ai piedi della rampa, l’essere parlò con voce tonante. «Vi dò il benvenuto,» disse, «su questo schifo di pianeta.»

«Come diavolo,» proruppe Horton, sbalordito, «conosci la nostra lingua?»

«L’ho imparata tutta da Shakespeare,» disse l’essere. «Me l’ha insegnata Shakespeare. Ma adesso è morto, e mi manca terribilmente. Sono desolato senza di lui.»

«Ma Shakespeare è un uomo molto antico, e io non capisco…»

«Per nulla antico,» disse l’essere, «sebbene non era giovane, in verità, e aveva una malattia. Si diceva umano. Somigliava moltissimo a te. Deduco che anche tu sei umano, ma l’altro non lo è, sebbene ha aspetti umani.»

«Hai ragione,» disse Nicodemus. «Non sono umano. Sono la cosa migliore che esista dopo gli umani. Sono l’amico di un umano.»

«Allora va benissimo,» disse soddisfatto. «Va benissimo. Perché io lo ero per Shakespeare. Il migliore amico che aveva mai avuto, diceva. Sento molto la mancanza dello Shakespeare. Lo ammiro moltissimo. Sapeva fare tante cose. Una cosa che non poteva fare era imparare la mia lingua. Così, per forza, ho dovuto imparare la sua. Mi parlava dei grandi trasporti che viaggiano rumorosamente nello spazio. Perciò, quando vi sento arrivare, mi affretto molto rapidamente, sperando che è qualcuno della gente di Shakespeare.»

Horton disse a Nicodemus: «C’è qualcosa che non va. L’uomo non può essersi spinto tanto lontano nello spazio. Nave ha perso tempo, naturalmente, rallentando per esaminare i pianeti. Ma siamo quasi a mille anni-luce di distanza…»

«La Terra, a quest’ora,» disse Nicodemus, «può avere navi molto più veloci, che superano di parecchio la velocità della luce. È possibile che molte di queste navi ci abbiano superati, mentre noi procedevamo lentamente. Quindi, per quanto possa apparire strano…»

«Voi parlate di navi,» disse l’essere. «Anche Shakespeare ne parla, ma non ne ha bisogno. Shakespeare viene attraverso il tunnel.»

«Senti un po’,» fece Horton, irritato, «prova a parlare in modo razionale. Cos’è questa storia del tunnel?»

«Vuoi dire che non sapete del tunnel tra le stelle?»

«Mai sentito,» disse Horton.

«Torniamo indietro,» propose Nicodemus, «e ricominciamo daccapo. Immagino che tu sia indigeno di questo pianeta.»

«Indigeno?»

«Sì, indigeno. Questo è il tuo posto. Questo è il tuo pianeta. Sei nato qui.»

«Mai,» disse l’essere, in tono enfatico. «Non orinerei neppure su questo pianeta, se posso farne a meno. Non vi resterei neppure per la più piccola unità di tempo, se posso andarmene. Mi sono precipitato qui per contrattare un passaggio sulla vostra nave, quando ve ne andrete.»