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Elayne era arrivata sulla cresta dell’altura e si era fermata. Quando Horton la raggiunse, tese il braccio. «Là,» gli disse. «Eccolo là.»

Un milione di gemme brillava nel sottobosco. Il drago non si vedeva, nascosto dalla vegetazione, ma i riflessi d’arcobaleno irradiati dal suo corpo mostravano dov’era caduto.

«È morto,» disse Elayne. «Non si muove.»

«Non è detto,» fece Horton. «Potrebbe essere ferito, ma vivo.»

Scesero tra gli arbusti, e quando superarono un albero enorme dai rami bassi, videro il drago.

Era di una bellezza che toglieva il respiro. Ognuna delle minuscole scaglie che rivestivano il corpo era un punto di luce gemmea, piccole pietre preziose dai colori squisiti che scintillavano nel sole. Quando Horton avanzò di un passo, tutto il corpo parve incendiarsi: l’angolazione delle scaglie agiva come un riflettore che gli buttava in viso lo splendore del giorno. Ma quando mosse un altro passo, cambiando l’angolo delle scaglie in rapporto a se stesso, il bagliore si spense, e ritornò lo scintillio, come se fosse un albero di Natale interamente coperto e celato da lampadine intermittenti, molto più colorate di quelle che mai avessero ornato un albero di Natale. Azzurri carichi e rossi rubino, verdi che andavano dal pallore di un cielo serotino di primavera all’intensità cupa di un mare infuriato, giallo vivo, il brillio del topazio illuminato dal sole, il rosa dei fiori del melo, il luccichio autunnale delle zucche… e tutti i colori erano coperti da quello scintillio che si può vedere in un gelido mattino d’inverno, quando tutto è indiamantato.

Elayne trattenne il respiro. «Com’è bello!» mormorò. «Più bello di quanto immaginassimo quando l’abbiamo visto nella cripta del tempo.»

Era più piccolo di quanto fosse sembrato in volo, e giaceva immobile. Un’ala di mussolina si stendeva dal corpo snello, ripiegata ad appoggiarsi al suolo. L’altra era gualcita, afflosciata. Il lungo collo era contorto, e la testa era posata con una guancia sul terreno. Vista da vicino, sembrava ancora coperta da un elmo: sulla testa, le scaglie che rivestivano il resto nel corpo mancavano. L’elmo era foggiato di strutture solide che parevano lamine di metallo levigato. Anche il becco massiccio, sporgente dalla maschera dell’elmo, pareva metallico.

E mentre giaceva in silenzio, immobile, l’occhio sul lato in alto della testa si schiuse… un occhio azzurro, un occhio mite, chiaro e limpido e sereno.

«È vivo!» gridò Elayne, e fece per avvicinarsi. Con un grido, Horton tese la mano per fermarla; ma lei lo schivò, cadde in ginocchio accanto alla testa crudele, la prese tra le braccia, e sollevandola se la strinse al petto.

Horton era impietrito, e non osava muoversi, non osava parlare. Una creatura ferita, sofferente… un affondo, un colpo di quel becco adunco…

Ma non accadde nulla. Il drago non si mosse. Teneramente, Elayne posò di nuovo la testa al suolo, tese la mano per accarezzare il collo gemmeo. Il drago batté lentamente le palpebre, fissandola.

«Sa che siamo amici,» disse lei. «Sa che non gli faremo del male.»

Il drago riabbassò le palpebre, e questa volta l’occhio restò chiuso. Elayne continuò ad accarezzargli il collo, rivolgendogli mormorii sommessi. Horton rimase dov’era, ad ascoltare quel bisbiglio, l’unico suono (a malapena un suono) in un silenzio terribile che era sceso sulla cresta della collina. Sotto di lui, dall’altra parte dello Stagno, il gingillo che era Nicodemus era ancora ritto sulla riva, accanto alla chiazza che era Carnivoro. Più in alto, riusciva a distinguere la chiazza più grande che era la collina sventrata da cui era emerso il mostro. Del mostro non c’era più traccia.

Aveva saputo del mostro, pensò… o avrebbe dovuto saperlo. Solo ieri si era arrampicato sulla collina, procedendo sulle mani e sulle ginocchia perché era troppo ripida. Poco prima di arrivare in vetta s’era fermato a riposare, disteso sul ventre, ed aveva captato una vibrazione nel suolo, come il battito di un cuore. Ma aveva detto a se stesso, lo ricordava, che era soltanto il suo cuore a battere, martellando per la stanchezza della scalata, e non ci aveva più pensato.

Guardò di nuovo il drago, e percepì qualcosa di strano: ma gli occorse qualche tempo per capire.

«Elayne,» disse sottovoce. «Elayne.»

Lei alzò la testa e lo guardò.

«Il drago è morto,» le disse. «I colori stanno svanendo.»

Sotto i loro occhi, i colori continuarono a dileguarsi. Le minuscole scaglie persero lo scintillio, la bellezza sparì. Non era più un prodigio, era una grande bestia grigia: e non c’era dubbio che fosse morto.

Lentamente Elayne si alzò in piedi, si asciugò con i pugni il viso madido di pianto.

«Ma perché?» chiese, rabbiosamente. «Perché? Se era racchiuso nel tempo, se il tempo s’era fermato, per lui, doveva essere fresco e forte come nel momento in cui vi era stato imprigionato. Il tempo non sarebbe esistito, per lui. Non vi sarebbero stati cambiamenti.»

«Non sappiamo nulla del tempo,» disse Horton. «Forse coloro che vi racchiusero il drago non ne sapevano quanto credevano di sapere. Forse il tempo non poteva venire controllato facilmente e attendibilmente come pensavano. Potevano esservi ancora pecche in quella che consideravano, magari, una tecnica perfetta.»

«Vuoi dire che qualcosa non ha funzionato, nella cripta del tempo? Che potrebbe esserci stata un’infiltrazione…»

«Non possiamo saperlo,» disse Horton. «Il tempo, per noi, è ancora il grande mistero. La cripta potrebbe avere avuto effetti insospettati sui tessuti viventi o sui processi mentali. L’energia vitale può essere defluita, possono essersi accumulati i veleni del metabolismo. Forse l’attesa è stata più lunga di quanto avessero calcolato coloro che chiusero nel tempo il drago. Qualche fattore potrebbe aver ritardato la nascita del mostro oltre il periodo solitamente necessario per la schiusa.»

«È strano,» disse Elayne, «come si sono svolti gli eventi. Se Carnivoro non fosse rimasto intrappolato su questo pianeta, forse il mostro si sarebbe scatenato.»

«E Stagno,» disse Horton. «Se Stagno non ci avesse dato l’allarme, non avesse lanciato il suo grido d’avvertimento…»

«Ecco. Ecco come l’hai saputo. Perché Stagno aveva paura?»

«Probabilmente percepiva la malvagità del mostro. Forse Stagno non è immune al male.»

Elayne sali il breve pendio e si fermò accanto a Horton. «La sua bellezza è sparita,» disse. «È terribile. C’è così poca bellezza nell’universo: non possiamo rinunciare a quella che c’è. Forse per questo la morte è tanto orribile: toglie la bellezza.»

«Il crepuscolo degli dei,» disse Horton.

«Il crepuscolo…»

«Un’altra vecchia leggenda della Terra,» disse lui. «Il mostro, il drago e Carnivoro. Tutti morti. Una grande resa dei conti finale.»

Elayne rabbrividì nel tepore del sole sfolgorante.

«Torniamo indietro,» disse.

28.

Sedevano accanto al fuoco morente.

«C’è qualcuno,» chiese Nicodemus, «che ha voglia di fare colazione?»

Elayne scosse il capo.

Horton si alzò in piedi, lentamente. «È ora di andare,» disse. «Non c’è più nulla che ci trattenga qui. Lo so, eppure provo una strana riluttanza ad andarmene. Siamo stati qui solo tre giorni, ma mi sembra molto di più. Elayne, tu vieni con noi?»

«Naturalmente,» disse lei. «Credevo lo sapessi.»

«Penso di sì. Lo chiedevo per essere sicuro.»

«Se mi volete e se c’è posto.»

«Ti vogliamo, e il posto c’è. C’è tanto posto.»

«Immagino che porteremo con noi il libro di Shakespeare,» disse Nicodemus. «Nient’altro. Sulla via del ritorno potremo fermarci a raccogliere un sacchetto di smeraldi. So che per noi forse non varranno nulla, ma non riesco a perdere l’abitudine di considerarli preziosi.»