«C’è un’altra cosa,» disse Horton. «Ho promesso a Stagno di portare con noi un po’ di lui. Prenderò una delle fiasche più grandi che Shakespeare aveva trovato nella città.»
Elayne parlò, sottovoce. «Stanno arrivando le lumache. C’eravamo dimenticati di loro.»
«È facile dimenticarle,» disse Horton. «Sgusciano via, sfuggono. In un certo senso, sono irreali. È difficile tenerle nella mente, come se loro preferissero così.»
«Vorrei che avessimo il tempo di scoprire cosa sono,» disse Elayne. «Non può essere solo una coincidenza che siano comparse esattamente in quel momento. E hanno ringraziato Carnivoro, o almeno sembrava che lo ringraziassero. Ho l’impressione che abbiano avuto una parte più importante, in tutto questo, di quanto possiamo immaginare.»
La prima delle lumache aveva estroflesso un tentacolo e lo agitava nella loro direzione.
«Forse,» disse Elayne, «hanno appena scoperto che il tunnel è chiuso.»
«Vogliono che le seguiamo,» disse Nicodemus.
«Probabilmente vogliono mostrarci che il tunnel è chiuso,» disse Horton. «Come se non lo sapessimo.»
«Comunque,» disse Elayne, «dovremmo andare con loro, e scoprire che cosa vogliono.»
«Se ci riusciremo,» commentò Nicodemus. «Le comunicazioni non sono delle migliori.»
Horton si avviò per primo, seguito da Elayne e dal robot. Le lumache scomparvero oltre la curva che nascondeva il tunnel, e Horton allungò il passo. Superò la curva e si fermò di colpo.
La bocca del tunnel non era più scura: brillava di un candore lattiginoso.
Alle spalle di Horton, Nicodemus disse: «Povero Carnivoro. Se potesse essere qui.»
«Le lumache,» disse Elayne. «Le lumache…»
«Potrebbero essere del popolo dei tunnel?» chiese Horton.
«Non è detto,» fece Nicodemus. «Le custodi dei tunnel, forse. Le sorveglianti. Non necessariamente le costruttrici.»
Le tre lumache scendevano balzellando lungo il sentiero. Non si fermarono. Raggiunsero l’imboccatura del tunnel e vi saltarono dentro, scomparendo.
«Il quadro dei comandi è stato rimesso a posto,» disse Nicodemus. «Debbono essere state le lumache. Ma come sapevano che stava per accadere qualcosa che avrebbe permesso loro di riaprire il tunnel? Chissà come, qualcuno doveva sapere che la schiusa era imminente, e che il pianeta poteva venire riaperto.»
«È stato Carnivoro a renderlo possibile,» disse Horton. «Ci ossessionava, ci stava addosso, continuava a insistere perché riaprissimo il tunnel. Ma alla fine è stato lui a riaprirlo, a renderlo possibile. E troppo tardi perché gli servisse. Eppure, non possiamo addolorarci per lui. Ha ottenuto quello che voleva. Ha realizzato il suo scopo, e pochi vi riescono. La sua ricerca della gloria è finita, e adesso è un grande eroe culturale.»
«Ma è morto,» disse Nicodemus.
«Dimmi,» fece Horton, ricordando il suo dialogo con Shakespeare, «dimmi prima che cos’è la morte.»
«È una fine,» disse Nicodemus. «Come una luce che si spegne.»
«Non ne sono tanto sicuro,» disse Horton. «Una volta sarei stato d’accordo con te, ma adesso non so.»
Elayne parlò, con una vocetta da bambina. «Carter,» disse. «Carter, ascoltami, ti prego.»
Horton si girò verso di lei.
«Non posso venire con voi,» disse Elayane. «È tutto cambiato. Adesso è diverso.»
«Ma avevi detto…»
«Lo so: ma allora il tunnel era ancora chiuso, e sembrava che non ci fosse possibilità di aprirlo. Vorrei venire con te. Non c’è nulla che desideri di più. Ma adesso…»
«Ma adesso il tunnel è aperto.»
«Non si tratta solo di questo. Non è solo perché ho un compito da svolgere, e adesso posso continuarlo. È per via delle lumache. Adesso so cosa sto cercando. Devo ritrovare le lumache. Trovarle, riuscire a comunicare con loro. Possono dirci quello che abbiamo bisogno di sapere. Niente più sondaggi alla cieca per scoprire il segreto dei tunnel. Adesso sappiamo chi può dirci tutto quello che ci interessa.»
«Se riuscirai a trovarle. Se riuscirai a comunicare con loro. Se vorranno parlare con te.»
«Dovrò tentare,» disse lei. «Lascerò messaggi lungo il percorso, davanti a molti altri tunnel, nella speranza che vengano trovati da molti altri ricercatori: così, se non ci riuscirò io, ci saranno altri che sapranno e potranno proseguire la caccia.»
«Carter,» disse Nicodemus, «tu sai che lo deve fare. Anche se la vorremmo con noi, dobbiamo riconoscere…»
«Sì, certo,» disse Horton.
«So che non lo farai, che non puoi farlo, ma debbo chiedertelo,» disse lei. «Se venissi con me…»
«Sai che non posso,» disse Horton.
«Sì, so che non puoi.»
«Dunque è così» disse Horton. «Non possiamo cambiare la realtà. I nostri impegni sono troppo profondi. Ci incontriamo, e poi ce ne andiamo, ciascuno per la sua strada. È come se questo incontro non fosse mai avvenuto.»
«Questo non è giusto,» disse Elayne. «E tu lo sai. Le nostre vite sono state cambiate, un po’. Ci ricorderemo sempre l’uno dell’altra.»
Alzò il viso. «Baciami,» disse. «Baciami, in fretta, per non darmi tempo di pensare, perché possa andarmene…»
29.
Horton s’inginocchiò accanto allo Stagno e calò la fiasca nel liquido. Il liquido gorgogliò, riempiendola. L’aria spostata si sollevò in mille bollicine.
Quando la fiasca fu piena, si alzò, e l’infilò sotto il braccio.
«Addio, Stagno,» disse, e si sentiva ridicolo mentre lo diceva, perché non era un addio. Stagno se ne andava con lui.
Era uno dei vantaggi di essere come Stagno, pensò. Stagno poteva andare in molti luoghi, pur senza lasciare mai il suo punto di partenza. Come se, pensò, lui avesse potuto andare con Elayne e nel contempo con Nave… e fosse rimasto sulla Terra e fosse morto da molti secoli.
«Stagno,» chiese, «cosa ne sai tu della morte? Tu muori? Morirai mai?»
Ed anche questo era ridicolo, pensò, perché tutto deve morire. Un giorno, forse, l’universo sarebbe morto, quando l’ultimo guizzo di energia si fosse esaurito: e allora il tempo sarebbe rimasto solo ad aleggiare sulle ceneri di un fenomeno che forse non si sarebbe mai ripetuto.
Futile, pensò. Era tutto futile?
Scosse il capo. Non riusciva a pensarla così.
Forse l’ora di Dio conosceva una risposta. Forse quel grande pianeta azzurro sapeva. Un giorno, forse tra molti millenni, Nave, nell’abisso nero di un lontano settore della galassia, avrebbe ricevuto o scovato la risposta. Forse, nel contesto di quella risposta poteva esserci la spiegazione dello scopo della vita, del flebile lichene aggrappato, talvolta senza speranza, ai minuscoli grumi di materia fluttuanti in un’immensità inesplicabile che non sapeva e non si curava che vi fosse qualcosa chiamata vita.
30.
La gran dama disse: Così adesso la rappresentazione è finita. Il dramma si è concluso, e noi possiamo lasciare questo fastidioso pianeta per la purezza dello spazio.
Lo scienziato chiese: Ti sei innamorata dello spazio?
Essendo ciò che sono, gli disse la gran dama, non posso innamorarmi di niente. Dimmi, Monaco, che cosa siamo. Sei abilissimo a trovare risposte alle domande più assurde.
Noi siamo coscienze, disse il monaco. Siamo consapevolezza. È quanto dobbiamo essere, ma ci aggrappiamo ancora a vari rottami che un tempo portavamo con noi. Ci aggrappiamo ad essi perché pensiamo che ci donino un’identità. E questa è la misura del nostro egoismo e della nostra presunzione… il fatto che conformazioni quali noi siamo cerchino ancora un’identità. Ed è anche la misura della nostra miopia. Perché per noi è possibile un’identità molto più grande — noi tre insieme — delle pìccole identità personali su cui continuiamo ad insistere. Possiamo diventare, se lo permetteremo, una parte dell’universo… possiamo forse diventare come l’universo.