«C’è solo feccia», disse Tabitha, contrariata. «Ma possiamo fare un giro».
Si fecero strada in mezzo ai tavoli finché Arinnian si fermò ed esclamò: «Hoy-ah! Vodan, ekh-hirr».
Il suo compagno di gruppo sollevò lo sguardo, chiaramente preso alla sprovvista. Era seduto davanti ad un bicchiere, ed aveva a fianco una femmina dalle piume malridotte, che indirizzò ai nuovi venuti un’occhiata cupa.
«Buon volo a te», salutò Arinnian in Planha; ma ciò che seguì, per quanto automatico, era troppo ovvio per non esprimerlo in Anglico. «Non mi aspettavo di trovarti qui».
«Ed a te, buon atterraggio», rispose Vodan. «Dovrò tornare alla nave tra poche ore. Il mio trasporto parte dalla base dell’Isola Alcione. Sono venuto qui in anticipo per non rischiare di essere trattenuto da una tempesta; vicino casa abbiamo già avuto tre turbini uno dopo l’altro».
«Sei pronto per la battaglia, cacciatore», disse Tabitha con la maggior cortesia possibile.
È vero, pensò Arinnian. È ansioso di combattere. Solo… se non avesse potuto rimanere con Eyath fino all’ultimo minuto, almeno avrei potuto immaginare che fosse andato in volo notturno da qualche parte, a meditare, o, comunque, con gli amici… Fece le presentazioni.
Vodan indicò la sua accompagnatrice. «Quenna», disse. La sua mancanza di formalità era un insulto non voluto. Lei si piegò tra le ali, con le penne erette in un gesto di trascurata autoaffermazione.
Arinnian non riuscì a trovare nessuna scusa per non unirsi ai due. Lui e la ragazza si sedettero come meglio poterono. Quando arrivò rotolando il robot, ordinarono della birra di Nuova Africa, densa e forte.
«Come ti soffia il vento?», domandò Tabitha, emettendo grossi sbuffi dalla pipa.
«Bene; come mi auguro per voi», rispose Vodan in modo corretto. Poi si volse verso Arinnian e, con un entusiasmo un po’ forzato ma indubbiamente reale, gli disse: «Saprai certamente che in queste ultime settimane sono stato impegnato in manovre di addestramento».
Sì. Me l’ha detto Eyath, più di una volta.
«Questa è stata una breve licenza. Il mio mestiere richiede abilità. Lascia che te ne parli. Uno dei nuovi lanciasiluri, piuttosto simile ad una Meteora terrestre, ah, una bellezza, un dardo! Sono stato orgoglioso di decorarne lo scafo con le tre stelle d’oro».
«Eyath» significa «Terza Stella».
Vodan continuò a parlare. Arinnian lanciò un’occhiata a Tabitha. Lei e Quenna si stavano scambiando degli sguardi. Tra le penne serpeggiavano e si accavallavano espressioni diverse; perfino lui riusciva a leggere gran parte di quel mezzo linguaggio non espresso a parole.
Sì, mia cara bionda Terricola, Quenna è ciò che è: e chi sei tu per storcere il naso a quel modo? Cos’altro avrei potuto essere io che, crescendo, ho scoperto di poter comandare a volontà i miei periodi di calore? E che non c’era per me, in tutto l’universo, un sol posto decente per rifugiarmi? Oh, sì, sì, l’ho sentito dire già, non preoccuparti: «Cure mediche; consulti»… Beh, carne floscia, per tua informazione, i gruppi non accolgono volentieri i malatini, e non sarò certo io a mendicare aiuto. Quenna percorrerà la sua strada meglio di te, che in verità sei come sei… non è vero che lo sei, femmina umana?
Tabitha si chinò in avanti, diede un buffetto su una di quelle braccia senza far caso agli artigli, sorrise a quegli occhi arrossati e mormorò: «Buon tempo a te, fanciulla».
Stupita, Quenna fece uno scatto all’indietro. Per un attimo sembrò lì lì per scagliarsi contro la ragazza, e la mano di Arinnian scese ad abbrancare il coltello. Poi si rivolse a Vodan: «Sarà meglio che andiamo».
«Non ancora». L’Ythrano aveva superato brillantemente il suo imbarazzo. «Solo le nuvole decideranno quando io rivedrò il mio fratello».
«È meglio andare», ripeté lei a voce più bassa. Arinnian colse il primo leggero profumo di muschio. Al tavolo accanto, un altro maschio sollevò la cresta e girò la testa nella loro direzione.
Arinnian poteva immaginare il conflitto che doveva esserci in Vodan — allontanarla, sfidarla, colpirla; ucciderla no, perché era disarmata — eppure già quello sarebbe stato un arrendersi vero e proprio, non tanto alla tradizione quanto alla semplice convenzionalità… «Dovremo andare, non appena avremo finito queste birre», disse l’umano. «Felice di averti visto. Ti auguro venti favorevoli per sempre».
Il sollievo di Vodan fu evidente. Borbottò qualche formalità di rimando e se ne andò in volo con Quenna. La città li inghiottì.
Arinnian cercò invano qualcosa da dire. Ringraziò dentro di sé la luce fioca; si sentiva il volto più caldo di quanto non lo fosse l’aria. Guardò al di fuori.
Con voce dolce, alla fine Tabitha disse: «Povera anima perduta».
«Chi, la volatrice notturna?». D’un tratto si sentì furioso. «Ho già incontrato qualcuna come lei. Degenerate, piccole criminali. Prega che Vodan non debba rovinarsi, in quel lurido letto in cui lo sta portando. So come devono essere andate le cose. Lui se ne andava in giro da solo, ad ali sciolte, un montanaro che probabilmente non si era mai imbattuto in una come lei. Lei l’avrà puntato, colpendolo con quel tanto di feromone che bastava per eccitarlo… ugh!».
«Perché ti preoccupi? Voglio dire, certo, lui è un tuo amico, ma non riesco a credere che quella patetica creatura oserà tentare qualcosa di più che strappargli una mancia con qualche lusinga». Tabitha inalò il fumo. «Lo sai», continuò in tono pensoso, «questo è un caso di arretratezza culturale Ythrana. Sono stati influenzati dalle idee umane al punto di non offrire l’opportunità di una morte rapida ai loro anormali. Ma ancora non si preoccupano di garantirne la riabilitazione, curandoli o usando la semplice carità. Un giorno…».
Lui aveva appena udito l’ultima osservazione. «Vodan sta per sposare Eyath», disse attraverso il groppo che gli stringeva la gola.
Tabitha aggrottò la fronte. «Eh? Quella di cui mi hai parlato? Beh, non credi che se lei lo venisse a sapere, sarebbe contenta che lui si fosse goduto un attimo di piacere e che se ne dimenticherebbe subito?».
«Non è giusto! Lei è troppo pulita. Lei…». Arinnian deglutì. All’improvviso pensò: Perché poi non correre il rischio? Adesso ho bisogno di dimenticare me stesso. «Per te è una cosa da nulla?», disse senza pensarci. «In tal caso, facciamo la stessa cosa».
«Hm?». Lei lo studiò per un tempo interminabile. I lampi si avvicinavano, trasportati da violente raffiche. La sua rabbia scemò, e lui dovette lottare per non abbassare gli occhi, per non farsi piccolo.
Alla fine: «Sei proprio amareggiato, vero, Chris?». Una risatina. «Ma sei anche fiducioso».
«Mi dispiace», farfugliò lui. «Non avrei mai v-voluto mancarti di rispetto. Volevo darti un… un esempio immaginario… farti capire perché sono sconvolto».
«Potrei anche risentirmi, se lo definisci immaginario», disse lei sorridendo, malgrado il suo tono fosse diventato più compassionevole che ironico. «A meno di presumere che in realtà non lo fosse. La risposta è no, grazie».
«Me l’aspettavo. Noi uccelli…». Non riusci a finire, ma abbassò lo sguardo sul suo boccale, poi lo sollevò per berne una rapida, lunga sorsata.
«Che cosa vuoi dire, con quel "noi"?», lo provocò lei.
«Beh, noi… la nostra generazione, almeno…».
Mentre lei annuiva, i suoi riccioli riflettevano l’illuminazione del locale. «Lo so», disse in tono serio. «Quel tipo di comportamento, promiscuo come nei kakkelaks quanto a mancanza di rispetto del partner, ma estremamente timido verso gli uccelli di sesso opposto. Sei un ragazzo in gamba, Chris; gli Avaloniani non sono portati all’introspezione, ma tu devi avere qualche idea del perché. Non sogni mai di avere una moglie e dei figli?».