Cajal sedeva solo nel cuore della supercorazzata Valenderay. Era circondato da schermi di comunicazione, e da un ronzante silenzio, e da chilometri radiali di metallo, macchinari, armi, blindature, energia, attraverso cui si affollavano migliaia di esseri viventi. Ma per il momento era consapevole solo di quello che c’era all’esterno. Uno schermo gli mostrava: oscurità, sciami di diamanti e Laura, minuscolo a diciannove unità astronomiche di distanza, ma dorato e scintillante, scintillante.
Le navi erano uscite dall’iperdrive e stavano accelerando in direzione del sole sotto la spinta della gravità. Molte erano ben più avanti della nave ammiraglia. Ci si poteva attendere uno scontro col nemico di minuto in minuto.
L’angolo destro della bocca di Cajal si piegò verso il basso, stringendosi in una smorfia. Era un uomo alto, magro, con il naso affilato, i capelli a punta sulla fronte e la barba ancora nera malgrado si avvicinasse alla sessantina. L’uniforme era sobria come richiedeva il suo rango.
Aveva fumato una sigaretta dopo l’altra. Si tolse l’ultima dalla bocca riarsa e la gettò a terra come se fosse impestata. Perché non riesco a sopportare questi ultimi istanti di attesa? si domandò. Forse perché io me ne starò al sicuro mentre mando gli uomini a morire?
Lo sguardo si posò su un ritratto della moglie morta, che stava in piedi davanti alla loro casa in mezzo agli alti alberi di Vera Fé. Fece per animarlo, ma preferì attivare un registratore.
Ne uscì della musica, un brano che lui e lei avevano amato, pressoché dimenticato sulla Terra, ma senza età nella sua trionfale serenità, la Passacaglia di Bach. Si piegò all’indietro, chiuse gli occhi e lasciò che la musica gli lenisse l’angoscia. Il dovere dell’uomo in questa vita, pensò, è di scegliere il male minore.
Il ronzio di un cicalino lo riportò bruscamente alla realtà. L’immagine del suo comandante esecutivo riempì lo schermo e disse: «Signore, abbiamo ricevuto ed avuto conferma di un rapporto in merito ad ostilità iniziali da parte dello Squadrone Vanguard Tre. Nessun particolare».
«Molto bene, Cittadino Feinberg», disse Cajal. «Mi faccia avere immediatamente qualsiasi informazione al riguardo».
Sarebbero arrivate subito, a valanga, al di là delle capacità di un cervello vivente. Poi sarebbero state filtrate attraverso un intricato complesso di subordinati e dei loro computer, e lui poteva solo sperare che i riassunti che avrebbe ricevuto avessero una qualche significativa relazione con la realtà. Ma quei primi resoconti diretti erano sempre sottilmente preziosi, come se il tono di una battaglia trapelasse già dai suoi inizi.
«Sì, signore». Lo schermo divenne opaco.
Cajal spense la musica. «Addio, per ora», bisbigliò, e si alzò in piedi. Nella stanza c’era un altro effetto personale, un crocifisso. Lui si tolse il berretto, si inginocchiò, e si fece il segno della croce. «Padre, perdona a noi ciò che stiamo per fare», pregò. «Padre, abbi pietà di tutti coloro che muoiono. Tutti».
«Ordine ricevuto, Governatore», annunciò la voce Ythrana. «Contatto con i Terrestri a circa dodici unità astronomiche di distanza, in direzione delle Lance. Aperto il fuoco da entrambe le parti, ma apparentemente ancora nessuna perdita».
«Grazie. Per favore, mi tenga informato». Daniel Holm spense l’intercom.
«Come se mi servisse a qualcosa!», gemette.
La sua mente si perse dietro i calcoli. La luce, la radio, i neutrini impiegavano circa otto minuti per percorrere un’unità astronomica. Le notizie erano vecchie più di un’ora. Quell’iniziale attacco esplorativo da parte di poche, piccole navi poteva benissimo essere già finito, con i frammenti degli sconfitti che turbinavano in orbite folli mentre i vincitori consumavano carburante come se i loro motori contenessero soli in miniatura, cercando di riguadagnare la velocità cinetica che avrebbe permesso loro di ricongiungersi. D’altronde, se altre unità sull’altro fianco non erano troppo distanti, potevano essersi fatte sotto anche loro per riempire lo spazio di testate nucleari in un raggio via via sempre più ampio.
Disse un’oscenità e si batté il pugno sul palmo. «Se solo potessimo comunicare ad ipervelocità…». Questo, però, non sarebbe stato pratico. Gli impulsi «istantanei» di un vascello che si muoveva a balzi quantici, prossimo alla velocità limite della natura, potevano essere modulati per inviare un messaggio ad una distanza di un anno luce o giù di lì, ma comunque non così all’interno del campo gravitazionale distorcente di una stella, dove si rischiava l’annientamento solo a cercare di viaggiare in modo non relativistico; naturalmente si poteva anche farla franca se si era assolutamente sicuri di essere ben sintonizzati, ma in tempo di guerra non lo era nessuno… e in ogni caso, data pure quella possibilità, i Terrestri sarebbero stati un nemico ancora più temibile, e il combatterli sarebbe stato disperato invece che quasi disperato… ma perché sto rivangando tutte queste sciocchezze?
«E Ferune è là, ed io sono qui!».
Balzò dal suo tavolo, si diresse pesantemente verso la finestra e rimase lì in piedi a fissare il panorama. Tra i denti il sigaro fumava come un vulcano. La giornata, al di fuori, era bella in modo insultante. Una brezza autunnale portava profumi salmastri su dalla baia, la quale scintillava e danzava sotto il cielo e il sole di Laura; e portava fragranze dai giardini che attraversava, giardini che brillavano intorno alle case. Nell’azzurra foschia della distanza si stagliavano le colline settentrionali. In alto stormivano delle ali, ma lui non ci fece caso.
Rowena lo raggiunse. «Lo sapevi che avresti dovuto rimanere, caro», gli disse. Aveva i capelli ancora color biondo rame, ed era ancora snella e diritta nella sua tuta.
«Già. In appoggio. Supporto logistico, per le comunicazioni e per i computer. E forse Ferune capisce meglio di me la guerra spaziale, ma io sono il solo che abbia realmente predisposto la difesa del pianeta. Ci siamo messi d’accordo, mesi fa. Niente disonore per me, perché faccio la cosa più sensata». Holm si girò verso la moglie, e la strinse per la vita. «Ma, mio Dio, Ro, non pensavo che sarebbe stata così dura!».
Lei gli prese la testa sotto la spalla e gli scompigliò i capelli grigi.
Ferune di Mistwood aveva progettato di portare con sé la sua compagna. Wharr gli era stata a fianco nel corso di una lunga carriera militare, aveva messo al mondo ed allevato i loro figli sulle navi avaloniane che accompagnavano ogni flotta Ythrana, si era esercitata e sapeva dirigere le squadre addette ai pezzi da fuoco. Ma lei era ammalata e i medici non erano riusciti a rimetterla in sesto prima che sopravvenisse l’attacco. Si invecchia così, in modo strano. A lui mancava molto la sua forza d’animo.
Ma era troppo occupato per star lì a rimuginare i loro addii. Alla sua nave ammiraglia continuavano ad arrivare rapporti su rapporti. Cominciava a venir fuori uno schema.
«Guarda», disse. I computer avevano appena modificato il pannello indicatore in base agli ultimi dati. Esso mostrava soli, pianeti, e delle scintille di diversi colori che rappresentavano le navi. «Combattimenti qui, qui, e qui. Altrove, emissioni di neutrini che raggiungono i nostri rivelatori, correlazioni incrociate che si svolgono, posizioni ottenute».
«Un’informazione vergognosamente insufficiente», dissero le penne e l’atteggiamento del suo aiutante.
«Così lontano, sì, con le distanze inteplanetarie. Ma noi possiamo comunque riempire certi vuoti col ragionamento, se partiamo dal concetto che il loro ammiraglio sia un individuo capace. Ho la moderata certezza che il suo movimento a tenaglia abbia solo due artigli, che avanzano quasi diametralmente opposti, da nord e da sud rispetto al piano dell’eclittica… così». Ferune indicò col dito. «Ora deve avere delle forze di riserva, ancor più all’esterno. Per evitare di formare un cerchio troppo largo e di conseguenza essere scoperte prematuramente, queste devono essersi mosse in linea retta rispetto alla normale direzione di Pax. E se fossi io al comando, le avrei fatte muovere lungo l’eclittica. Per cui dobbiamo aspettarci il loro assalto, quando si chiuderanno gli artigli, da qui». E indicò la zona.