Uscendo dalla porta, si trovò a livello del terreno. Gli umani avevano spazio in abbondanza su Avalon — erano circa dieci milioni, contro quattro milioni di Ythrani — ed anche lì a Gray, ciò che sul pianeta si avvicinava di più ad una vera città, avevano costruito edifici bassi e molto estesi. Un paio di grattacieli erano sufficienti per gli ornitoidi residenti o in visita.
Arinnian sfiorò i comandi. La negaforza lo sollevò dolcemente e rapidamente verso l’alto. Mentre decollava, per un buon minuto assaporò il panorama.
La città si stendeva tra colline verdeggianti di alberi e cespugli, macchiate qua e là da giardini, tutto intorno alla Baia di Falkayn. Sull’acqua scivolavano delle barche; essendo natanti da diporto, si trattava prevalentemente di aliscafi a vela. Nei docks c’erano pochi mercantili, lunghe e funzionali sagome di gradevole aspetto, che i robot provvedevano a caricare e scaricare. Ce n’era uno in arrivo, dalle Isole Brendan a giudicare dalla rotta, mentre un altro spiccava contro il Mare Esperide che splendeva argenteo dove batteva il sole e altrove appariva di un blu zaffiro, fino a sfumare nel porpora dell’orizzonte settentrionale e meridionale.
Laura brillava bassa contro il vuoto dell’occidente, con un’aura più intensa che a mezzogiorno. Il cielo era di un blu che andava scurendosi lentamente; strisce di alte nuvole cirriformi, che ad Arinnian sembrarono penne pettorali, promettevano che il bel tempo sarebbe continuato. Una brezza salata soffiava dolcemente, rinfrescandogli le guance.
Il traffico aereo era scarso. Gli passarono accanto parecchi Ythrani, con le ali risplendenti di bronzo ed ambra. Un paio di umani volavano come Arinnian, servendosi di cinture gravitazionali; da lontano, a stento si poteva distinguerli da uno stormo di smilzi e coriacei pipistrelli che la sera avesse strappato a qualche caverna. In maggior numero erano gli umani che viaggiavano a bordo di un’aeromobile, gocce di pioggia orizzontali che respingevano la luce con inanimata fierezza. Due o tre vagoni merci si muovevano pesantemente ed un velivolo di linea intercontinentale stava puntando il muso verso l’aeroporto. Ma Gray non era mai freneticamente tumultuosa.
Più in alto, tuttavia, incrociavano delle sagome che non si erano più viste dalla fine dei Tumulti: aviazione militare in servizio di pattuglia.
La guerra contro l’Impero Terrestre… Rabbrividendo, Arinnian diresse ad est, verso l’interno.
Già poteva vedere la sua destinazione, al di là della catena costiera e della valle centrale, come un banco di nuvole sul ciglio del mondo, quei picchi che erano i più alti di Corona, e di tutto Avalon, non contando Oronesia. Gli uomini li chiamavano i picchi di Andromeda, ma nel suo Anglico Arinnian si era abituato a chiamarli anche col nome Planha, Madre delle Intemperie.
Sotto di lui si stendeva, ondulata, la zona delle fattorie. Lì intorno a Gray gli stanziamenti Ythrani, prevalentemente settentrionali, si mescolavano con quelli umani, prevalentemente meridionali; entrambe le ecologie si fondavano con quella di Avalon, e la zona sembrava una scacchiera della dama. I campi di grano dell’uomo, che maturavano col declinare dell’estate, si stendevano fulvi in mezzo agli enormi campi verdi in cui gli Ythrani facevano pascolare i loro maukh ed i mayaw. Foreste di alberi da legname, querce o pini, compatti o spaziati, si addentravano in spianate pressoché prive di alberi dove crescevano quelle piante locali color berillo chiamate susin e dove era ancora possibile scorgere qualche occasionale barisauroide. Il ritmo del volo scacciò il malumore. Che l’Impero attaccasse pure il Dominio… se ne aveva il coraggio! Nel frattempo lui, Arinnian, era legato ad Eyath… a tutto il suo gruppo, naturalmente, ed era tutt’uno con loro: ma soprattutto voleva rivedere Eyath.
Nella dignità della sala da pranzo, uno sguardo passò fra di loro. Potremo vagare all’esterno ed essere noi stessi? Ella chiese al padre Lythran ed alla madre Blawsa il permesso di andarsene; benché vivesse a loro carico quello era un semplice rituale, e tuttavia i rituali avevano una grande importanza. Nello stesso modo Arinnian disse ai giovani presso il cui desco era stato accolto che desiderava non essere accompagnato. Lui ed Eyath uscirono fianco a fianco. Il che non causò alcuna frattura nella lenta conversazione punteggiata di silenzi alla quale tutti prendevano parte. La loro intimità risaliva ai tempi dell’infanzia, ed era stata pienamente accettata.
Lo stazionamento si trovava su un altipiano di Monte Farview. Nel mezzo sorgeva la vecchia torre di pietra che ospitava i membri più anziani della famiglia ed i loro figli. Le costruzioni di legno più basse, sui cui tetti di zolle germogliavano i draghi d’ambra e le campanule stellate, erano destinate a coloro che non erano sposati, ai dipendenti ed ai loro parenti. Più giù, lungo un pendio, c’erano capannoni, granai e gabbie. Da terra non si poteva vedere subito tutto l’insieme, perché in mezzo alle costruzioni crescevano gli alberi Ythrani: il veliero intrecciato, l’albero del rame, lo scarno parafulmine, le foglie-gioiello che scintillavano alla luna e di giorno assumevano una coloratura iridescente. Le aiuole ospitavano piante indigene, molto più evolute di qualunque cosa proveniente dall’esterno del pianeta… i piccoli e dolci janie, i pungenti fonteviva, i graziosi trifogli e i calici di Budda, rampicanti ad arpa che la brezza faceva sempre cantare delicatamente. Per il resto, la notte era tranquilla e, a quell’altezza, fredda. L’alito si trasformava in nuvolette bianche.
Eyath dispiegò le ali. Erano più sottili della media, malgrado raggiungessero quasi sei metri di apertura. Questo la costringeva naturalmente a tenersi sulle mani e sulla coda. «Brrr!», esclamò ridendo. «C’è brina. Saliamo». Un battito d’ali ed un turbine di vento, ed era già in aria.
«Hai dimenticato», le gridò lui, «che mi sono tolto la cintura».
Lei si appollaiò sopra una piattaforma costruita vicino alla sommità di un albero del rame. Gli Ythrani facevano pochi rumori superflui, evidentemente egli poteva arrampicarsi. Pensò che lei sopravvalutasse le sue capacità, soltanto perché era più bravo ad arrampicarsi. Un passo falso tra quella vegetazione oscura poteva significare una brutta caduta. Ma non poteva ignorare la sfida sottintesa senza perdere il rispetto di lei. Afferrò un ramo, si tirò su e si fece strada a tastoni frusciando in mezzo al verde.
Dopo un po’ la sentì mormorare qualcosa all’uhoth che l’aveva raggiunta in volo alle spalle. Abbatteva la selvaggina con ammirevole efficienza, ma lui ebbe l’impressione che Eyath gli dimostrasse eccessiva attenzione. D’accordo, non si poteva negare che fosse ormai in età da marito, ma a lui non piaceva riconoscerlo con se stesso. (Perché?, si domandò fugacemente).
Quando raggiunse la piattaforma, la vide in stato di riposo sui piedi e sulle ali, con l’uhoth sul polso destro e la mano sinistra che lo accarezzava. Morgana, quasi piena, si stagliava di un bianco abbagliante contro la sierra orientale, facendo risplendere le piume di Eyath. La sua cresta si profilava contro la Via Lattea. Malgrado la luna, le costellazioni brillavano nell’aria montana, la Ruota, le Spade, Zirraukh, la Nave che si allargava immensa…
Le si sedette a fianco, stringendosi le ginocchia fra le braccia. Lei emise il piccolo ululato che esprimeva la sua contentezza per la presenza del giovane, il quale le rispose meglio che poté. Sopra la curva armoniosa del musetto di lei, scintillavano i grandi occhi.