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Erano soli sul ponte di comando, largo come tutto l’interno della nave. Gli Ythrani avevano bisogno di molto spazio per allargare le ali. Comunque erano ben collegati alla nave tramite gli intercom, i calcolatori, gli ufficiali, l’equipaggio; lo erano un po’ meno con quella magnificenza che incupiva ed ingioiellava lo schermo visore, là dove era iniziato il combattimento. Il clangore e il fracasso dell’attività giungevano loro attenuati, attraverso un sordo mormorio di motori. Soffiava un’aria calda che arruffava un po’ le loro piume, un’aria profumata di cannella e di drago d’ambra. L’odore del sangue non sarebbe giunto a meno che e finché il vascello non avesse affrontato un vero combattimento; se stimolato troppo intensamente, l’equipaggio si sarebbe logorato presto.

Il piano di Ferune non prevedeva di arrischiare così presto la supercorazzata. Doveva risparmiarla per lo scontro finale. A quel momento avrebbe fatto vedere ai Terrestri perché essa portava il nome del luogo dove si era svolta una vecchia battaglia su Ythri. Sui fianchi, a grandi lettere, lui aveva fatto scrivere la traduzione in Anglico: Hell Rock.

Sull’indicatore apparve un nuovo sciame di granelli. La loro brillantezza indicava che si trattava di navi, così come suggeriva l’analisi delle loro emanazioni di neutrini. L’aiutante scattò in piedi, con la cresta diritta. «Tutti quegli avversari, così presto? Zio, le cose si mettono male».

«Lo sapevamo già da prima. Non lasciarti ipnotizzare da quel giocattolo. Ho affrontato cose peggiori. La metà del mio corpo è costituita da tessuto rigenerato in seguito a ferite riportate in combattimento. E sono ancora qui, perfettamente in grado di volare».

«Perdonatemi, Zio, ma gran parte dei vostri combattimenti erano azioni di polizia all’interno del Dominio. Qui è l’Impero, che ci sta venendo addosso».

Ferune espresse: «Me ne rendo conto benissimo. Ed ho studiato anch’io le tecniche militari più avanzate, sia in pratica che in teoria». Poi, ad alta voce: «Computer, robot, macchine contribuiscono solo a metà a creare il fascino di una guerra. Ci sono anche cuori e cervelli».

Gli artigli ticchettarono sul ponte mentre lui si dirigeva verso lo schermo e si chinava in avanti per vedere. Il suo occhio esperto colse un bagliore in mezzo alle stelle, una nave. Per il resto la sua flotta si perdeva allo sguardo nell’immensità attraverso la quale si era aperta a ventaglio.

«Sta per iniziare un nuovo scontro», disse l’intercom.

Ferune attese immobile che gli giungessero i particolari. Le parole di uno degli antichi libri terrestri che gli piaceva leggere attraversarono la sua mente: La paura di un re è come il ruggito di un leone: chiunque provochi in lui la rabbia pecca contro il suo animo.

Le ore si trasformarono in giorni, mentre le flotte, nelle loro formazioni enormemente sparpagliate, si individuavano e cercavano di colpirsi nei rispettivi punti deboli.

Considerate: all’accelerazione lineare di una gravità terrestre un vascello può, da un «punto fisso», coprire un’unità astronomica — circa 149 milioni di chilometri — in poco meno di quindici ore. Al termine di tale periodo, avrà guadagnato una velocità di 1060 chilometri al secondo. In un tempo doppio si muoverà ad una velocità doppia ed avrà coperto una distanza quattro volte superiore. Qualunque sia l’energia conferita dai motori termonucleari, qualunque manovrabilità derivi da una spinta gravitazionale che reagisce direttamente contro quel tessuto di relazione che chiamiamo spazio, a questo ordine di grandezza non sarà possibile alterare rapidamente le quantità.

C’è poi da considerare anche la semplice ampiezza delle distanze interplanetarie. Una sfera di una unità astronomica di raggio ha il volume di circa tredici milioni di milioni di terre; moltiplicare questo raggio per dieci significa moltiplicare il volume per mille. Per quanto sensibili siano gli strumenti, non è possibile sondare rapidamente quelle profondità, né farlo con troppa accuratezza al di là delle immediate vicinanze, né sapere dove si trovi sul momento un oggetto isolato se i segnali sono limitati alla velocità della luce. Con l’aumentare del cumulo follemente incompleto di dati, non cambiano solo i parametri del calcolo per la battaglia; cambiano anche le equazioni. Si può scoprire così di aver perso ore ed ore in un viaggio che è diventato quindi inutile o peggio ancora, ed altre ore o giorni si devono perdere per cercare di porre rimedio alla situazione.

Ma poi, rapido come un fulmine, sopravviene uno scontro abbastanza vicino a velocità più o meno simili, per un combattimento che può benissimo esaurirsi nello spazio di pochi secondi.

«Numero Sette, lancio!», ammonì il robot addetto ai pezzi, e scaraventò in battaglia la Hooting Star.

I motori fecero presa. Le ossa di Philippe Rochefort, seduto tutto bardato sulla poltroncina del pilota, furono attraversate da una vibrazione martellante. Al di sopra del quadro di comando, al di sopra del suo elmetto ed a lato di entrambe le spalle, gli schermi visori formavano i quattro quarti di un globo pieno di stelle. Laura, la cui brillantezza veniva filtrata attraverso un diaframma per non accecarlo, splendeva come un disco delicato tra due ali madreperlacee di luce zodiacale. Il suo allarme radar fischiò e si accese, facendo ruotare una freccia nell’interno di una sfera trasparente. Il suo cuore ebbe un sussulto. Non poteva fare a meno di guardare, e colse la visione del cilindro che si precipitava verso l’enorme fiancata dell’Ansa.

Durante il lancio, è necessario disattivare lo schermo negagrav in quella zona dell’astronave madre. E non c’è nulla che possa respingere un siluro. Se l’oggetto fa contatto ed esplode… Nel vuoto, parecchi chilotoni non sono poi così spaventosamente distruttivi come in aria o in acqua; ed una nave ammiraglia è corazzata e suddivisa in compartimenti per difendersi da urti o calore, e fittamente schermata per impedire alle radiazioni nocive di penetrare all’interno. Nondimeno subirà forti danni, forse rimarrà paralizzata, e gli uomini saranno fatti a brandelli, bruciati vivi, e grideranno il loro desiderio di morire.

Un raggio d’energia avvampò, seguito da un’istantanea incandenscenza. I sensori fornirono i loro dati ai relativi computer. Dopo un millisecondo dall’esplosione, trillò il suono che significava «eliminato». Uno dei cannoni di Wa Chaou aveva colpito in pieno il siluro.

«Ben fatto!», esclamò Rochefort nell’intercom. «Bel colpo, Occhio di Lince!». Fece ruotare i rivelatori in cerca della nave che doveva essersi avvicinata abbastanza per lanciare quel missile.

Registrazione. Individuazione. La Hooting Star schizzò in avanti. La Ansa si andava rimpicciolendo in mezzo alle costellazioni. «Dammi il tempo stimato per giungere a distanza di tiro, Abdullah», disse Rochefort.

«Sembra essersi accorto di noi», rispose la voce di Helu, fredda come il ghiaccio. «Dipende se cercherà di sfuggire o se si avvicinerà a… Hm-m, sì, sta manovrando per mettersi al riparo». (Lo farei anch’io, in tutta onestà, pensò Rochefort, se un incrociatore pesante mi sputasse addosso delle lance. È stato già coraggioso, quel capitano, a farsi così sotto). «Possiamo intercettarlo in circa dieci minuti, presumendo che sia al massimo dell’accelerazione. Ma non credo che ci sia nessuno che può venirci in appoggio, e se lo aspettiamo, quello riuscirà a scappare».