I raggi avevano raggiunto il bersaglio. Ma nessuno di essi poteva essere mantenuto fisso per il tempo necessario a perforare quelle robuste piastre. Bombe il cui frutto erano radiazioni letali esplodevano ai limiti del suo raggio difensivo. Ma i neutroni ed i quanti gamma venivano assorbiti dai successivi strati delle schermature interne. Quelli che riuscivano ad arrivare, facendosi strada fino alle sezioni interne più profonde, dove ferveva l’attività delle creature viventi, erano così pochi che bastava una semplice medicazione per annullarne gli effetti.
Era stata costruita nello spazio e non avrebbe mai toccato il suolo. Planetoide con pieno diritto, spazzava via, una dopo l’altra, tutte le navi che osavano venirle incontro.
La Supernova di Cajal era più forte. Ma non si doveva rischiare la Valenderay. Tutto lo scopo di quell’armamento e quella protezione era proteggere il comando della Flotta. Quando l’ammiraglio ricevette la notizia, studiò il pannello indicatore. «Stiamo perdendo gli scafi più leggeri. Quella se li divora», disse, soprattutto a se stesso. «Non vorrei dover impiegare i vascelli più importanti. Pare che il nemico abbia molta più efficienza difensiva di quanto non ci aspettassimo, e sicuramente aprirà ben presto il fuoco su di noi. Ma, ad una distanza così ridotta, la velocità e la manovrabilità non contano come dovrebbero. Ci serve la pura forza per eliminare quel mostro; e dobbiamo farlo prima di poter costituire una seria minaccia per il pianeta». Si tirò la barba. «Così… tutti insieme, Perseo, Ursa Minor, Regulus, Jupiter e gli ausiliari dovrebbero essere in grado di svolgere il lavoro… Abbastanza rapidamente e a una distanza di sicurezza, in modo da potersi difendersi da eventuali attacchi del pianeta».
I computer tattici ratificarono ed elaborarono la sua decisione. Lui trasmise gli ordini.
Vodan vide un siluro che gli passava vicino. «Ehilà, bene!», esclamò. Se avesse applicato solo poche megadine in meno di forza decelerativa la testata avrebbe fatto centro. Il missile frenò e virò di bordo, ma uno dei suoi cannonnieri lo distrasse.
La lancia terrestre fluttuava più avanti, spostata sulla sinistra, e più bassa. Gli strumenti di Vodan riferirono che essa esercitava una spinta più laterale che anteriore. Il pilota doveva avere l’intenzione di tagliare a prora dell’Ythrano, qualche chilometro più avanti, lanciare una manciata di polvere anti-radar, e sperare che il fuoco concentrato dei suoi cannoni a raggi penetrasse prima che l’altro potesse averlo a tiro. Poiché gli Ythrani, a differenza dei Terrestri, non combattevano indossando tute spaziali (come si faceva a non impazzire dopo solo qualche ora dentro quelle cose orribili e soffocanti?) un grosso foro nel compartimento li avrebbe liquidati.
Quel figlio di puttana era in gamba, riconobbe allegramente Vodan. Per quanto i duelli spaziali fossero goffi e pesanti, stavolta gli sembrava di essere nell’aria e volare. La contesa continuò fin quando Avalon si stagliò enorme nell’arco degli schermi visori. In effetti si erano avvicinati all’atmosfera più di quanto fosse prudente a quella velocità. Era meglio chiuderla lì.
Vodan intuì il modo.
Proseguì rallentando a ritmo uniforme, come se intendesse poi deviare all’esterno. Il terrestre avrebbe seguito questo ragionamento: Lui ha capito che cosa ho in mente. Quando blocco il suo radar, quello fugge in una direzione imprevedibile. Ah, ma non siamo in iperdrive. Non può muoversi alla velocità dei raggi d’energia, mentre io posso coprire l’intera gamma delle sue possibili posizioni istantanee.
Per far quello, comunque, la piattaforma di tiro aveva bisogno di un vettore costante. Altrimenti le equazioni avrebbero presentato troppe incognite e il bersaglio avrebbe avuto ottime possibilità di fuga. Per una frazione di minuto, se Vodan aveva visto giusto, la Meteora avrebbe fatto a meno del vantaggio di una superiore mobilità. E… lui aveva armi superiori.
Il terrestre si aspettava un siluro e immaginava di poterlo eliminare senza difficoltà. Ma probabilmente non si rendeva conto di quale concentrazione di energia avrebbe potuto scaricargli addosso il suo avversario in un breve attimo, quando tutti i proiettori fossero stati attivati in sovraccarico.
Vodan fece i suoi calcoli. I cannonieri fecero i preparativi.
La Meteora passò, in avanti, simile ad uno gnomo contro la lucentezza di Avalon. Un velo improvviso e scintillante spuntò fuori da essa, allargandosi a velocità esplosiva fino a formare una cortina. E nascose le due navi l’una all’altra.
Attraverso la nebbia spuntarono i raggi in cerca di un bersaglio. Vodan sapeva esattamente dove puntare i suoi: infierirono per trenta secondi.
La polvere metallica si disperse, e nuovamente tornò a brillare Avalon, enorme e tranquillo. Vodan cessò il fuoco prima di bruciare i suoi proiettori. Dalla Meteora, nessun segno di vita. Si servì dell’ingrandimento, e vide il foro che si era spalancato a poppa, vicino ai coni di guida. L’aria ne sgorgava fuori, condensandosi in acqua come uno spettro per poi svanire nel vuoto. L’accelerazione era cessata del tutto.
Vodan fu preso da una gioia improvvisa. «L’abbiamo colpito!», gridò.
«Potrebbe lanciare tutti insieme i suoi siluri», si preoccupò l’ingegnere.
«No. Venga a vedere lei stesso, se lo desidera. L’impianto energetico ha subito un duro colpo. Non gli è rimasto nulla se non il banco condensatore. Se pure può servirsene con piena efficienza, del che dubito, non riuscirà ugualmente a fornire ad alcun oggetto una velocità iniziale sufficiente a preoccuparci».
«Kh’hng. Lo finiamo?».
«Vediamo se si arrende. Banda media… Chiamo la Meteora Imperiale. Chiamo la Meteora Imperiale».
Un altro trofeo per te, Eyath!
La Hell Rock rabbrividiva e vibrava. All’interno rimbombavano i rumori. L’aria era piena di fumo acre, risuonava di urla e di ordini dati ad alta voce, di trapestii e di battiti d’ali. Un compartimento dopo l’altro cedeva e si apriva allo spazio. Le paratie calavano giù per separare il metallo contorto ed i corpi dilaniati da quelli che ancora sopravvivevano.
Combatteva. Poteva ancora combattere con ciò che rimaneva dei suoi automatismi anche dopo che l’ultimo membro dell’equipaggio, del quale stava proteggendo la ritirata, se ne fosse andato.
C’era Ferune, il suo personale più stretto, e pochi rappresentanti di Mistwood, ai quali era stato concesso il diritto di restare con il proprio Wyvan. Costoro si facevano strada lungo corridoi echeggianti di urla e di paura. Qua e là c’erano delle sezioni oscure, dove i fluoropannelli e i rivestimenti erano stati divelti dalla robusta struttura.
«Quanto ci vorrà prima che la facciano a pezzi?», domandò uno che si trovava alle spalle di Ferune.
«Un’ora, forse», congetturò lui. «Chi l’ha costruita ha fatto un bel lavoro. Naturalmente Avalon attaccherà prima di quel momento».
«Quando?».
«Lo giudicherà Daniel Holm».
Si ammassarono nella scialuppa di salvataggio. Ferune si mise ai comandi. Il battello si sollevò facendo leva sui campi interni; le valvole spinsero lateralmente con forza, ed esso emerse alla luce delle stelle e diressero verso casa.
Ferune diede un’occhiata indietro. La nave ammiraglia era frastagliata, raggrinzita, piena di fori. In alcuni punti il metallo si era liquefatto per poi coagularsi in forme orrende, in altri punti brillava ancora. Se fossero riusciti a concentrare il bombardamento in quei punti in cui le difese non erano più funzionanti, una testata o due di megatoni sarebbero bastate a ridurre la nave in gas e cenere. Ma la probabilità di un colpo così preciso a media distanza di tiro era troppo esigua per rischiare un supermissile contro le rimanenti capacità di intercettazione. Meglio tenersi a distanza e finirla con raffiche minori.