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«Viaggia felice nei venti», bisbigliò Ferune. In quel momento aveva messo da parte la sua nuova condizione, la sua condizione di alieno, ed apparteneva ad Ythri, Mistwood, Wharr, ai suoi antenati e ai suoi figli.

Avalon attaccò. La scialuppa vorticò. Sottoposti ad un intollerabile carico di luce, gli schermi visori si oscurarono. Subito dopo andò via l’illuminazione. I volatori si rannicchiarono, si ammassarono insieme, per proteggersi dal rumore, dal calore e dall’oscurità.

Passò. La scialuppa non aveva subito seri danni. Si inserirono automaticamente i circuiti di riserva, e gli occupanti poterono tornare a vedere, dentro e fuori. Verso poppa la Hell Rock si stagliava contro la lucentezza livida e decrescente di un globo di fuoco che copriva quasi metà del cielo.

Uno degli occupanti ansimò: «Quanti… megatoni?».

«Non lo so», rispose Ferune. «Presumibilmente abbastanza da far fuori quegli Imperiali che ci siamo tirati addosso».

«È un miracolo che ne siamo venuti fuori», disse il suo aiutante. Aveva tutte le penne erette, e tremava.

«I gas si sono diffusi per chilometri», gli ricordò Ferune. «Qui non abbiamo generatori di campo protettivo, è vero, ma quando il fronte ci ha raggiunto, nemmeno una velocità equivalente a parecchi milioni di gradi avrebbe potuto aumentare di molto la nostra temperatura».

Il silenzio cadde come una cappa, mentre detonazioni minori scintillavano e svanivano in distanza, e continuavano a saettare i raggi d’energia. Gli occhi si cercarono. I cervelli dietro di essi erano perfettamente addestrati.

Lo disse Ferune per loro. «Radiazione ionizzante, primaria e secondaria. Non posso precisare l’entità della dose che ci ha colpito; il misuratore è andato fuori scala. Ma almeno possiamo tornare a raccontarlo».

Si dedicò alla guida. Wharr lo stava aspettando.

Rochefort andava a tastoni lungo lo scafo della Hooting Star. I generatori di gravità interna erano partiti; in caduta libera, essi erano adesso senza peso. E senz’aria, al di fuori della tuta protettiva. All’interno il silenzio era opprimente, tanto che lui poteva udire battere il suo cuore all’impazzata. Gocce di sudore gli scivolavano dalla fronte sul naso e sulle guance, danzando tra gli occhi e la visiera, afferrando la luce in bagliori oleosi. Quella luce pioveva bizzarramente attraverso il vuoto, non diffusa, piena di ombre nette.

«Occhio di Lince!», gracchiò alla radio. «Occhio di Lince, ci sei?».

«Ho paura di no», rispose la voce di Helu nella sua cuffia, dalla sala motori.

Rochefort trovò il piccolo corpo che galleggiava dietro un pannello mezzo staccato dagli ormeggi. Lo stesso raggio aveva trafitto la tuta e la carne, ed era riuscito poi dall’altra parte della tuta, cauterizzando la ferita in modo che solo qualche goccia di sangue galleggiava ancora. «Wa Chaou è morto?», domandò Helu.

«Sì». Rochefort si strinse al petto il Cinziano cercando di non piangere.

«È rimasto alcun controllo di tiro?».

«No».

«Beh, credo di poter tirar fuori dal condensatore l’energia per far funzionare le unità guida. Non possiamo sfuggire al pianeta, ma può darsi che riusciamo ad atterrare senza disintegrarci nel tragitto. Ci vorrà una manovra da manuale. È meglio che torni al suo posto, capitano».

Rochefort aprì l’elmetto per chiudere quegli occhi gonfi e sporgenti, ma le palpebre non ne vollero sapere. Assicurò il corpo all’ansa di un filo sciolto e tornò alla sua bardatura nel sedile di guida.

La luce di avviso stava ammiccando. Meccanicamente, consapevole solo del dolore, inserì una presa nell’unità della tuta e premette il pulsante di Ricevuto.

Una voce in Anglico, dal forte accento, contemporaneamente gutturale e squillante: «… Meteora Imperiale. Siete vivi? È una nave di Avalon, che parla. Fatevi riconoscere o spariamo».

«Ric… ric…». Prima che il fastidio alla gola si trasformasse in un singhiozzo, Rochefort disse: «Sì, qui è il capitano».

«Vi prenderemo a bordo, se volete».

Rochefort si afferrò al sedile, con le gambe che penzolavano verso poppa. Aveva le orecchie che ronzavano e crepitavano.

«Ythri si adegua alle convenzioni di guerra», disse la voce non umana. «Lei sarà interrogato ma non maltrattato. Se si rifiuta, dovremo prendere la precauzione di eliminarla».

Kh-h-h-h… m-m-m-m…

«Risponda subito! Siamo già troppo vicini ad Avalon. Il pericolo di trovarsi in mezzo al fuoco incrociato aumenta di minuto in minuto».

«Va bene», si sentì dire Rochefort. «Naturalmente. Ci arrendiamo».

«Bene. Noto che lei non ha rimesso in funzione i motori. Non lo faccia. Stiamo pareggiando la velocità. Legatevi e saltate nello spazio. Noi vi getteremo un raggio trattore e vi tireremo su al più presto possibile. Capito? Ripeta».

Rochefort ripeté.

«Avete combattuto bene», disse l’Ythrano. «Avete rivelato coraggio ed orgoglio. Sarò onorato di darvi il benvenuto a bordo». Poi silenzio.

Rochefort chiamò Helu. Gli uomini legarono le estremità di un cavo intorno alla loro vita, infransero il dispositivo di bloccaggio e si prepararono a lanciarsi in caduta libera. A qualche chilometro di distanza videro il vascello che sfoggiava le tre stelle giungere come un’aquila.

I cieli esplosero di splendore.

Quando il bagliore rosso e frastagliato fu scomparso dai loro occhi, Helu ridacchiò: «Ullah akbar, Ullah akbar… Eliminati. Cos’è stato?».

«Un centro pieno», rispose Rochefort. Lo shock aveva cominciato a dissolvere il suo stordimento. Sentì che le forze gli tornavano con prepotenza. La sua mente si illuminò, rapida come quei lampi di guerra in lontananza, ma fredda ed efficiente. «Sapevano che eravamo indifesi, e non avevamo compagni nei paraggi. Ma nonostante un’osservazione fatta dal capitano, devono aver dimenticato di guardarsi dai loro compagni. Le armi di stanza sul pianeta hanno cominciato a far fuoco. Immagino che i missili siano forniti di un bel po’ di siluri con ricerca automatica. I nostri motori erano spenti. I loro no. Un siluro ha puntato diritto contro le emissioni dei motori».

«Ma come, non c’erano circuiti di ricognizione?».

«Evidentemente no. Per scalpitare in quel modo, gli Avaloniani devono aver sacrificato la qualità per la quantità, fidando solo sul fatto che conoscevano la disposizione delle unità. Non era ragionevole aspettarsi un siluro così vicino; il combattimento è più in là. Direi che quel siluro era destinato a qualche particolare concentrazione di navi dell’Impero, ma per loro sfortuna gli è successo di passare da queste parti».

«Um». Erano sospesi tra l’oscurità e il luccichio, ansimando. «Abbiamo perso il passaggio», disse Helu.

«Allora dovremo cavarcela da soli», replicò Rochefort. «Vieni».

Sotto la sua calma riconquistata, lui era rimasto scosso da quella che sembrava essere la forza della reazione di Avalon.

9

Quando la lancia si fu fermata i rimbombi ed i tremolii terminarono, e rimasero soltanto il calore da altoforno e la puzza di bruciato; Rochefort sciolse i freni della sua coscienza.

Emerse dal nulla pochi minuti più tardi. Sopra di lui, in piedi, c’era Helu. «Tutto bene, capitano?». Dapprima la voce dell’ingegnere sembrò provenire da una lamentosa distanza, e il sudore e la fuliggine del suo volto si confusero nella foschia che attutiva la vista.