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«Sto bene», borbottò Rochefort. «Dammi… un’altra pillola stimolante…».

Helu gliela diede, insieme ad un bicchiere d’acqua che fece miracoli sulla lingua legnosa e sul palato incartapecorito. «Per la mano di Fatima, che galoppata!», disse Helu con voce malferma. «Ho pensato proprio che non ce l’avremmo fatta. Come diavolo ha fatto a portarci giù?».

«Non me lo ricordo», rispose Rochefort.

La droga fece effetto, restituendogli la lucidità dei sensi e della mente, oltre ad una certa quantità di energia. Poteva ricostruire quello che doveva aver fatto in quegli ultimi frenetici minuti. Gli erg immagazzinati nei condensatori non erano stati sufficienti a frenare del tutto la velocità relativa della lancia che precipitava verso la superficie del pianeta. Lui se ne era servito per mantenere il controllo, per impedire allo scafo di cuocersi per l’attrito dell’atmosfera che faceva da freno. La Hooting Star, a mezza strada verso il globo, era rimbalzata sulla tropopausa, come un sasso piatto rimbalza sull’acqua, poi era precipitata sibilando lungo una interminabile parabola che si sarebbe conclusa con l’inabissamento in acqua — perché non si poteva riparare il foro di poppa e la sala macchine, isolata, avrebbe costituito in acqua un peso eccessivo — se non fosse stato che lui, Philippe Rochefort, era riuscito a puntare in qualche modo (ora gli tornava alla mente) su una catena di isole ed era atterrato di schianto su una di esse…

Gli ci volle un po’ per liberarsi dalla paura di non essere più vivo. Poi si liberò della bardatura e, secondo le rispettive usanze, lui ed Helu si scambiarono i ringraziamenti; ad essi aggiunsero insieme un pensiero per l’anima di Wa Chaou. A questo punto lo scafo si era raffreddato tanto da poter essere toccato. Scoprirono che la valvola esterna si era staccata quando la lancia era penetrata come un aratro nel terreno.

«Aria buona», disse Helu.

Rochefort inspirò a pieni polmoni, con gratitudine. Non era soltanto il caldo e la puzza della cabina. Nessun sistema di aerazioni di qualunque veicolo spaziale poteva paragonarsi alla frescura di un mondo vivente. Quell’atmosfera che lo aveva accolto profumava di ozono, iodio, di vegetazione e di fragranze di fiori; era dolce ma frizzante di brezza.

«Più o meno dovrebbe essere la pressione media della Terra», proseguì Helu. «Come fa un pianeta come questo ad avere tanto gas?».

«Certo ne avrai trovati altri come questo», disse Rochefort.

«Sì, ma non mi sono mai posto la domanda. Adesso che mi è stato restituito l’universo intero, mi piacerebbe saperne di più».

«Beh, il magnetismo contribuisce», spiegò distrattamente Rochefort. «Il nucleo è piccolo, ma d’altra parte la rotazione è rapida, e si hanno valori d’idrogeno ragionevoli». Inoltre il campo ha meno particelle cariche da respingere, e quindi sono in numero minore quelle che riescono a passare e a distruggere le molecole di gas. Analogamente è minore il totale dei raggi X e ultravioletti ricevuti. Il sole è piuttosto vicino — qui abbiamo circa il dieci per cento in più di illuminazione rispetto alla Terra — ma è più freddo del nostro sole. La curva di distribuzione dell’energia raggiunge il valore massimo ad una frequenza più bassa, ed il vento stellare è debole».

Nel frattempo cominciava ad avvertire la diversa gravità. Il suo peso era quattro quinti di quello che era stato all’interno della lancia, con il campo a media forza. Quando si perdono sedici chili, lo si nota subito: un senso di elasticità, un’esuberanza del corpo che nemmeno la perdita di un amico e la probabilità di essere fatto prigioniero riescono a soffocare, benché poi non ci voglia molto per abituarsi alla nuova sensazione.

Fece un passo in avanti e si guardò intorno. Gli schermi visori che erano rimasti in funzione gli avevano mostrato che quella zona era disabitata. Verso l’interno saliva rapidamente. Dall’altra parte scendeva dolcemente verso una spiaggia dove i marosi si frangevano con una bianca violenza il cui rumore lo raggiungeva a più di un chilometro di distanza. Al di là, un mare di sienite si stendeva fino ad un orizzonte che, malgrado il raggio di Avalon, non sembrava poi molto più vicino che sulla Terra o su Esperance. Il cielo in alto era di un blu più intenso e brillante di quanto non fosse abituato a vedere. Il sole era basso, ed affondava due volte più veloce del sole dell’uomo. Il suo disco si rivelava un po’ più grande, con una sfumatura dorata. Una falce di luna si faceva strada, grande un quarto di più rispetto al diametro angolare della Luna vista dalla Terra. Rochefort sapeva che in realtà era più piccola ma che, essendo più vicina, aveva un effetto doppio di marea.

Lassù si vedevano, di tanto in tanto, strisce e bagliori luminosi… mostruose esplosioni nello spazio. Rochefort distolse il pensiero da essi. Per lui la guerra era presumibilmente finita. Sperò che finisse presto per tutti, prima che altre coscienze fossero stroncate.

Dedicò la sua attenzione alla vita che lo circondava. Il suo vascello aveva distrutto e bruciacchiato un denso strato di vegetazione alta e di un bel verde berillo che copriva l’isola. «Penso che questo spieghi perché il pianeta non ha foreste indigene», mormorò, «il che a sua volta può spiegare perché la vita animale sia sottosviluppata».

«Allo stadio dei dinosauri?», domandò Helu, guardando una mandria di goffe creature alate che passava accanto a loro. Ciascuna di esse aveva quattro zampe; il disegno basilare dei vertebrati di Avalon era esapodale.

«Beh, dei rettiloidi, benché alcuni abbiano sviluppato caratteristiche come i peli, o un cuore efficiente. In generale essi non avrebbero la minima probabilità di imporsi a forme di vita mammifere o avicole. I coloni hanno dovuto fare un lavoro del diavolo per impiantare una colonia mista che fosse stabile, e tengono come riserva una buona parte di terreno, incluso l’intero continente equatoriale».

«Li ha studiati proprio bene, eh?».

«Mi interessavano. E… mi sembrava sbagliato considerarli solo come il mio bersaglio. Mi sembrava che fosse giusto conoscere bene la gente che stavo per combattere».

Helu scrutò verso l’interno. Arbusti ed alberi sparpagliati ce n’erano. I secondi erano bassi e grossi, oppure sottili e flessibili, per sopravvivere ai forti venti che la rotazione rapida doveva causare assai spesso. Autunno o no, molti fiori continuavano a bocciare, rosso fiamma e giallo e porpora. Altri tipi di piante erano carichi di frutta a grappoli.

«Possiamo mangiare il cibo di qui?», domandò Helu.

«Sì, certamente», rispose Rochefort. «I coloni non avrebbero mai avuto il successo che hanno avuto, al tempo in cui giunsero, se non avessero potuto far conto sulle risorse locali. Mancano alcuni elementi essenziali, per esempio vitamine assortite o cose del genere. Gli animali domestici importati dovettero essere adattati geneticamente proprio a tale scopo. Se dovessimo nutrirci esclusivamente di cibi avaloniani cadremmo vittime di malattie da insufficienza. Comunque, non è una cosa che si manifesta subito, e ho letto che gran parte dei prodotti locali sono gustosi. Sfortunatamente ho anche letto che ce ne sono parecchi velenosi, e non so quali di essi lo siano e quali no».

«Humm». Helu si tirò i baffi e aggrottò la fronte. «Forse sarebbe meglio rivolgersi a qualcuno».

«Non c’è fretta», disse Rochefort. «Prima cerchiamo di imparare quanto più possibile. La lancia ha provviste per settimane, non te lo scordare. Dovremmo riuscire a…». Si interruppe, trafitto dalla consapevolezza. «Abbiamo subito un dovere da compiere».

Dovettero cominciare per forza col costruirsi una vanga e lavorare in mezzo ai rottami; lo strato di piante si rivelò resistente ed al di sotto trovarono creta dura. Il sole era tramontato, come in fiamme, quando seppellirono Wa Chaou.