«Sono sicuri che sia atterrata qui?», domandò uno della mezza dozzina di Ythrani che seguivano lei e Draun.
«O qui o in mare», borbottò il suo compagno. «A che serve la guardia nazionale se non per controllare le indicazioni dei rilevatori? Adesso state zitti. E fate attenzione. Se si trattava di una lancia Imperiale…».
«Sono naufragati», finì per lui Tabitha. «E sono impotenti».
«E allora perché non hanno chiamato per essere soccorsi?».
«Forse la loro trasmittente è fuori uso».
«E forse hanno qualche piano. Mi piacerebbe. Stanotte abbiamo avuto fin troppi morti. Più terrestri ci sono da spedire all’inferno, meglio è».
«Rispetta i tuoi ordini e chiudi la bocca», scattò Tabitha.
A volte lei pensava seriamente di sciogliere la società con Draun. Nel corso degli anni si era accorta che lui non credeva davvero negli dèi dell’Antica Fede, e che non ne aveva sviluppato i riti della tradizione, come facevano gran parte dei memebri di Highsky; no, lui godeva di quei sacrifici da mattatoio. E più di una volta aveva ucciso in duello, su sua stessa sfida, per quanto poi avesse avuto il suo daffare per raggranellare il risarcimento che il vincitore doveva ai familiari del defunto. E se pure abusava raramente dei suoi schiavi, tuttavia ne possedeva alcuni, il che per lei costituiva l’abuso maggiore.
Eppure… era leale e, nel suo modo arrogante, generoso con gli amici; la sua abilità di navigante si sposava superbamente con le capacità direttive di lei; quando voleva sapeva essere un ottimo compagno; aveva una moglie dolce e dei piccoli irresistibili, che amavano la loro zia Hrill quando li prendeva fra le braccia…
Io sono perfetta? Niente affatto, visto che lascio vagare la mia mente!
Volavano, lei facendo leva sulla sua cintura, e si lanciarono al di là della spiaggia, alti sopra l’isola. Gli occhiali fotoamplificatori la mostravano di un grigio argenteo, qua e là screziata da vegetazione più alta; la rugiada sui massi già rubava la luce delle stelle. (Come andrà lassù? Le ultime notizie dicevano che il nemico è stato ricacciato indietro, ma…). Provò il desiderio di volare nuda in quell’aria carezzevole, profumata da dare le vertigini. Ma il suo compito richiedeva tuta, corazza, elmetto e stivaletti. Ciò che era stato individuato mentre precipitava poteva essere un velivolo danneggiato di Avalon, ma poteva anche essere… Ehilà!
«Guardate». E indicò col dito. «Una traccia recente». Si avvicinarono, superarono una cresta, e videro il relitto sotto di loro.
«Terrestre, senza dubbio», disse Draun. Tabitha vide che la sua cresta e le penne della coda vibravano per l’eccitazione. Lui roteò, portando agli occhi un ingranditore. «Due verso l’esterno. Hya-a-a-a-ah!».
«Aspetta!», gridò Tabitha, ma lui era già in picchiata.
La ragazza maledisse la goffagine della cintura di gravità, azionò i comandi e si precipitò dietro di lui. La seguivano gli altri Ythrani, con i disintegratori stretti al petto, mentre le ali sollecitavano i corpi. Draun aveva lasciato il fucile nella guaina, e al suo posto brandiva il coltello Fao, lungo mezzo metro, pesante e ricurvo.
«Aspetta!», gridò ancora Tabitha nel sibilo dell’aria che si fendeva. «Almeno dagli la possibilità di arrendersi!».
Gli umani, in piedi accanto ad una macchia di terra smossa di recente, udirono. I loro sguardi si sollevarono verso l’alto. Draun emise il suo grido di battaglia. Uno dei due uomini portò rapidamente la mano all’arma nella fondina. Poi l’uragano gli fu addosso. Le ali sbattevano all’intorno, i remiganti erano come un ruggito. A due metri dal suolo, Draun trasformò la sua caduta in una spinta verso l’alto. Il braccio destro fece percorrere alla lama un breve arco e la mano sinistra, subito dietro, la spinse in avanti. La testa del terrestre volò dal collo, colpì il susin e rimbalzò orribilmente. Il corpo rimase eretto per un attimo, zampillando sangue, prima di crollare come una marionetta alla quale fossero stati tagliati i fili.
«Hya-a-a-a-ah!», gridò Draun. «Che i venti dell’inferno ti prendano prima dei miei compagni di gruppo! E dì a Illarian che stanno arrivando!».
L’altro terrestre incespicò all’indietro. Aveva estratto la sua arma e fece fuoco, un lampo ed un’esplosione nell’oscurità.
Prima che uccidano anche lui… Tabitha non aveva tempo per fare progetti. Si trovava all’avanguardia del gruppetto. Lo sguardo allucinato dell’uomo e il suo colpo tirato senza prendere la mira avevano come bersaglio Draun, la cui ombra dalle ampie ali non era ancora tornata per la seconda sortita. Lei lo attaccò alle spalle, afferrandolo per le gambe, e rotolò avanti insieme a lui, sempre mantenendo la presa. Precipitarono a terra; la cintura non era sufficiente a tenerli entrambi sollevati. Lei sentì la sua fronte sbattere contro una radice, e la sua guancia che strisciava contro un susin.
L’uomo cessò di dibattersi. Tabitha staccò la sua unità e si chinò accanto a lui. Il dolore e lo stordimento e la fatica dei polmoni erano cose lontane. Non era morto, vide, ma solo mezzo stordito perché aveva sbattuto la tempia contro una roccia. Il sangue colava tra i capelli neri e annodati, ma lui si mosse ed i suoi occhi si riempirono della luce delle stelle. Era alto, e scuro di carnagione, secondo il metro di Avalon… gente con simili cromosomi proveniva in genere da soli ben più forti di Laura…
Gli Ythrani calarono tutto intorno. Il vento ringhiava nelle loro penne. Tabitha si alzò in piedi, facendo scudo al terrestre. Fucile alla mano, ansimò: «No. State indietro. Basta con le uccisioni. È mio».
10
Ferune di Mistwood tornò a Gray, sistemò le sue cose e dopo pochi giorni salutò tutti.
A Daniel Holm: «La fortuna sia con te, Primo Governatore».
La bocca di Holm era tesa e inquieta. «Dovresti avere più tempo di… di…».
Ferune scosse la testa. La cresta lacera era abbassata; gran parte delle penne che gli erano rimaste erano di un bianco opaco; parlava a mormorii. Ma il suo sorriso non era cambiato. «No, temo che stavolta i medici non riusciranno a stimolare la rigenerazione. Non quando ogni più piccola cellula è stata colpita. Peccato che gli Imperiali non abbiano tentato di lanciarci addosso una bella nuvola di vapori di mercurio. Ma per te sarebbe piuttosto scomodo».
Sì, tu resisti meglio ai metalli pesanti di quanto non facciano gli umani, si sorprese a pensare inutilmente Holm, ma sei più vulnerabile di loro alle radiazioni forti. La voce proseguì faticosamente: «Per il momento, mi tengono insieme a forza di droghe e di filo da imballo. Molti di coloro che si trovavano con me sono già morti, ho saputo. Ma io dovevo trasferire a te i miei poteri e le mie cognizioni, prima che fosse finita, no?».
«A me?». L’uomo, tutto d’un tratto, non riuscì più a trattenersi. «A me che ti ho ucciso?».
Ferune si irrigidì. «Non darti troppe arie, Daniel Holm. Se davvero pensassi che biasimi te stesso, non ti avrei lasciato in quella carica… probabilmente non ti avrei nemmeno lasciato vivo, uno così stupido sarebbe pericoloso. Tu stavi eseguendo il mio piano, ed ha anche funzionato dannatamente bene, eh?».
Holm si inginocchiò e posò il capo sull’osso della carenatura. Era aguzzo, perché la carne non c’era quasi più, e la pelle bruciava come se fosse febbricitante, e lui poteva udire il cuore che sussultava. Ferune trasferì il peso del corpo sulle mani. Le ali avvolsero l’uomo e le labbra lo baciarono. «Se volo più in alto lo devo a te», disse Ferune. «Onoraci partecipando al mio rito funebre, se la guerra lo consente. Che i venti ti siano favorevoli per sempre».