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Solo che poi era finita male. Niente più marinai. Il Nido vuoto, una caverna, notte dopo notte dopo notte. Anche molti umani se ne andavano, e quelli che rimanevano — lei non aveva disdegnato la loro compagnia — se ne stavano sottoterra. Le notti nere e tranquille, la ronzante solitudine del giorno, il denaro che diminuiva sempre più, a tal punto che poteva appena comprarsi da mangiare, lasciavano solo una bottiglia o una pillola, per scacciare i brutti sogni.

Un battito d’ali. Doveva esserci qualcuno in città, solo, ora che era ricominciata la battaglia. «Sono sola anch’io», gridò. «Chiunque tu sia, ti amo». La sua voce risuonò fin troppo alta in quell’aria calda e immobile, sopra le acque oleose e le strade deserte, in mezzo a quelle mura piene di ombre e sotto quelle terribili, piccole stelle.

«Vodan?», chiamò con voce più bassa. Era quello che ricordava meglio, fra i marinai, quasi come i primi che si erano serviti di lei, più anni addietro di quanti non volesse ricordare. Era stato gentile, e si era preoccupato della sua amata, che era rimasta a casa, come se quella stupidella lo meritasse. Ma si stava comportando da sciocca. Senza dubbio le stelle si erano ingoiate Vodan.

Drizzò la cresta. Aveva anche lei il suo orgoglio. Non avrebbe avuto paura, nelle strade di mezzanotte. Ben presto sarebbe giunta l’alba, e lei avrebbe potuto dormire.

Il sole sorse rapidamente.

Le fu concesso un attimo, prima che esso riempisse il cielo. Poi la notte la ghermì, mentre gli occhi le si scioglievano. Ma non se ne accorse, perché le sue piume bruciavano. Il suo grido affogò nel fragore, quando molecole d’aria superveloci scivolarono tra i negacampi, e non si rese conto nemmeno dei timpani che si schiantavano e dei capillari che si rompevano. Nel suo delirio di dolore non c’era altro che il canale. Si lanciò verso di esso, lo mancò, e andò a finire contro una casa che esplose in un’unica fiammata. Ma non fece gran differenza, perché anche le acque del canale stavano bollendo.

A parte le questioni morali e il potenziale bellico, l’attacco a Centauro impegnò gran parte delle risorse di Avalon in una gigantesca operazione di tamponamento e soccorso. Era stato ben calcolato. Appena tre ore più tardi, lo squarcio che era stato aperto nelle difese fu completato e la prima ondata d’assalto vi si infilò dentro.

Rochefort si trovava all’avanguardia. Lui ed il suo equipaggio riunito in tutta fretta non aveva avuto molte occasioni per far esercizio, ma erano uomini in gamba e la Meteora portò a termine la sua missione con un élan che lui desiderò davvero di poter provare. Essi estesero l’interferenza per permettere il passaggio delle cannoniere più pesanti finché quelle non si trovassero al di sotto della quota pericolosa. Di passaggio, bloccarono un paio di missili nemici. Benché nessun mezzo spaziale funzionasse efficacemente nell’atmosfera, un lanciasiluri offriva un’accettabile manovrabilità, un’ampia potenza di fuoco ed un’ancor più ampia disponibilità di gente preparata a bordo. Le macchine guidate da semplici robot non potevano competere.

Avendo visto che il suo incarico era prossimo al termine, Rochefort diresse il suo vascello, secondo le istruzioni, contro la fonte dei missili. Si trovava al di là delle montagne, nella gola di un verde intenso scavata da un fiume. Le lance terrestri rombarono una dopo l’altra, lanciarono raggi e siluri contro i negacampi e i bunker, virarono di coda e schizzarono in alto verso la stratosfera, per poi tornar giù di nuovo per il secondo assalto. Non ci fu bisogno di un terzo. Una serie di crateri si aprì in mezzo alle creste ridotte in frantumi dalle esplosioni soniche. Rochefort desiderò poter dimenticare com’era stato bello quel canyon.

Ritornando a Scorpeluna, trovò che l’intero convoglio era atterrato. Marinai ed ingegneri stavano scendendo a sciami dalle navi addette al trasporto del personale, e le macchine dei vagoni merci. In alto, i mezzi di pattuglia oscuravano il cielo. Seguirono alcuni giorni alacri. Sotto l’apparenza di un’attività frenetica era sempre presente il pericolo dell’isterismo. Chi poteva sapere con certezza cosa aspettarsi dal nemico?

Non successe nulla. I generatori di schermi energetici furono montati e messi in funzione. Furono messi in posizione i proiettori ed i missili difensivi. Furono costruiti dei capannoni per l’equipaggiamento, e in seguito per gli uomini. E non fu sferrato alcun contrattacco.

Gli esploratori e gli strumenti di rivelazione aerei riferirono una considerevole attività nemica sugli altri continenti e tra le isole. Senza dubbio stavano preparando qualcosa. Ma non sembrava esserci una minaccia immediata.

Si aprì il secondo squarcio, attraverso il quale, senza incontrare alcuna opposizione, si riversò la seconda ondata. La base di Scorpeluna si allargò a macchia d’olio.

Dal momento che la sua intenzione era ormai chiara, Cajal fece distruggere varie altre fortezze orbitali, in modo da aprire ulteriori squarci. Poi fece indietreggiare il grosso della flotta, e da lì cominciò a rifornire la base di uomini ed attrezzature.

Le ultime navi avaloniane si fecero pian piano più vicine, azzardando qualche sortita per poi tornare subito a ritirarsi, ma erano lupi troppo malridotti per costituire una seria minaccia. Non fu fatto alcun serio tentativo contro di loro. L’essenziale era approfittare di quel tacito cessate il fuoco finché durava. Perciò ovunque gli Imperiali si astennero da azioni offensive. Lavorarono per fortificare le loro posizioni e per allargarle in modo che non dovessero soltanto difendersi, ma costituissero un vero e proprio maglio pronto a colpire tutto Avalon.

Dal momento che godeva il favore del grande ammiraglio, il tenente Philippe Rochefort (recentemente promosso senior) vide accolta la sua richiesta di un incarico continuato sul pianeta. E poiché non c’era più necessità di lanciasiluri spaziali, si trovò a guidare una pattuglia aerea volante a bordo di una bagnarola a due posti, una slitta gravitazionale carica di gloria.

Il compagno che gli era stato assegnato era un caporale di marina, Ahmed Nasution, diciannove anni standard, appena uscito da New Djawa ed appena arruolato nel corpo. «Sa, signore, tutti mi dicevano che questo pianeta era un paradiso», gli disse, esagerando il tono pietoso per assicurarsi che il suo superiore afferrasse il concetto. «Arruolati in marina e vedrai l’universo, eh?».

«Questa zona non è tipica», rispose un po’ bruscamente Rochefort.

«Quale lo è», aggiunse l’altro, «su un intero mondo?».

La bagnarola volava bassa al di sopra del pianoro di Scorpeluna. Il tettuccio era chiuso per evitare che entrasse l’aria bollente. Un sistema di tubi Hilsch ed il vitrile auto-oscurante facevano del loro meglio (inadeguato, in verità) per combattere quel calore, il cielo di ottone, il sole gonfio e abbagliante. Gli unici rumori erano il ronzio dei motori, e il sibilo del passaggio. All’orizzonte si stagliavano i picchi delle montagne, di un blu pallido ed irreale. In mezzo il vuoto. Cespugli, sempre le stesse specie basse, con le foglie rossastre, e dal profumo di medicinali, crescevano a perdita d’occhio e irregolarmente distribuite sulla terra rossa ed ostile. Il terreno non era proprio piatto. Si sollevava in spianate e monticelli capricciosi, o si apriva in grandi squarci brulli. Da lontano si potevano distinguere pochi animali a sei zampe, che pascolavano proteggendosi dal caldo per mezzo delle loro membrane parasole. Per il resto nulla si muoveva, tranne i tremiti dell’aria ardente e i mulinelli di polvere.