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Avendo evidentemente captato l’odore della carne portato dal vento, in quella terra affamata, i kakkelak cominciarono a sciamare verso la base principale. Non potevano volare, ma avanzavano in modo incredibilmente veloce. L’unico tentativo che si poteva fare era quello di formare un cordone infuocato intorno a loro.

Nel frattempo gli Avaloniani atterrarono su tutta Equatoria, sparpagliandosi per ogni dove con tale velocità — dato l’equipaggiamento leggero — che bombardarli sarebbe stato inutile. Tutti coloro che si addentrarono in Scorpeluna erano Ythrani.

Gli alti ufficiali medici e i planetologi si incontrarono col loro comandante. All’esterno un vento equinoziale mugghiava e sibilava nella notte senza stelle; la polvere frusciava contro le pareti di metallo che vibravano. Il calore sembrava giungere a raffiche, enormi e aride.

«Sì, signore», disse il comandante medico. Appartenendo alla marina vera e propria più che ai «marines», era inferiore di grado rispetto all’ammiraglio. «Ne abbiamo avuto le prove al di là di ogni ragionevole dubbio». Sospirò, e il suono si sparse nel vuoto. «Se avessimo avuto un equipaggiamento migliore, maggior personale… Beh, se ne occuperà la commissione d’inchiesta, o la corte marziale. Il fatto è che la scarsità di informazioni ci ha attirato in una trappola mortale».

«Troppi mondi». Il planetologo civile scrollò la grossa testa. «Ed ognuno troppo grande. Chi poteva saperlo?».

«Mentre voi state lì a blaterare», disse il comandante, «gli uomini muoiono in preda al delirio ed alle convulsioni. Sempre più ogni giorno che passa. Parlate». La sua voce era roca per la rabbia e per un pianto non del tutto sfogato.

«Sospettavamo un avvelenamento da metalli pesanti, naturalmente», disse l’ufficiale medico. «Abbiamo fatto ripetuti esami. La concentrazione è sempre sembrata entro limiti accettabili. Poi, dall’oggi al domani…».

«Non importa», lo interruppe il planetologo. «Ecco i risultati. Questi cespugli che crescono dovunque, qui intorno… sapevamo che assorbono elementi come l’arsenico e il mercurio. Ed anche l’arbusto infernale, che emette vapori letali, era stato descritto e fotografato. Quello che non sapevamo è che qui c’è una particolare specie di arbusto infernale. Ha un aspetto assolutamente diverso dagli altri. Immagini le rose e le mele. Inoltre, non avevamo idea di come agisse la tossina del genere descritto, si immagini questo! Dev’essersi evoluto dopo che furono pubblicate le descrizioni originali, quando si era dato per certo un composto puramente organico. Il volume di informazioni in ogni scienza è tale da sommergere…». Si interruppe, senza sapere più che cosa dire.

Il comandante attese.

L’ufficiale medico riprese il discorso. «I vapori portano i metalli in stretta combinazione con… una serie di molecole di cui nessun testo autorevole che io abbia letto aveva mai sentito parlare. La loro azione è… beh, bloccano certi enzimi. In realtà, vengono distrutte le difese del corpo. Nessun atomo metallico viene più espulso, ed ogni microgrammo di essi penetra fino agli organi vitali. Nel frattempo la vittima è ancor più indebolita dal fatto che una parte della sua chimica proteica non funziona come dovrebbe. Gli effetti sono sinergici ed esponenziali. All’improvviso si supera un certo limite».

«Io… capisco», disse il comandante.

«Noi alti ufficiali non siamo ancora in condizioni troppo brutte», gli disse il planetologo. «E nemmeno il nostro personale. Gran parte del tempo ce ne stiamo al riparo. Ma gli uomini…». Si strofinò gli occchi. «Non che io possa definirmi un uomo in buona salute», borbottò.

«Che cosa consigliate?», domandò il comandante.

«L’evacuazione», rispose l’ufficiale medico. «E non mi limito a consigliarglielo, le dico che non abbiamo alternativa. I nostri uomini hanno bisogno immediatamente delle cure adatte».

Il comandante annuì. Ammalato anche lui, e mostruosamente stanco, già da qualche giorno si aspettava una risposta del genere ed aveva cominciato pian piano a fare i preparativi.

«Non possiamo decollare domani», disse con voce strascicata. «Non abbiamo i mezzi; in gran parte sono tornati nello spazio. E poi un volo in preda al panico farebbe di noi degli ottimi bersagli per gli Avaloniani. Cercheremo di trasportare i casi più gravi, e richiameremo tutti al campo principale. Se faremo le cose con ordine e con calma, riporteremo giù la maggior parte delle navi». Non riuscì a controllare il tremito del labbro superiore.

Mentre gli Imperiali si ritiravano, i nemici attaccarono.

Non lanciarono missili terra-terra. Però i loro contingenti umani costruirono basi che avessero tale possibilità, in punti scelti per tutto il continente di Equatoria. Non fu difficile. A loro interessavano soltanto armi a breve gittata, che richiedevano poco più che una rastrelliera di lancio, e mezzi aerei, che richiedevano poco più che una baracca di assistenza per se stessi e per gli equipaggi. L’impresa più importante fu l’installazione di possenti proiettori di energia sui picchi che sovrastavano Scorpeluna.

Nel frattempo gli Ythrani scatenarono la guerriglia sull’altopiano. Essi, assai meno vulnerabili a quelle piante velenose, erano in piena forma e non ostacolati dalle tute, i respiratori ed i fazzoletti con i quali gli uomini cercavano freneticamente di proteggersi. Già provvisti di ali, non avevano bisogno di starsene seduti in macchine che i radar, i gravar e i magnetoscopi potevano individuare in un raggio di chilometri. Potevano invece colpire da qualsiasi rifugio offrisse il terreno, spruzzare di fuoco e metallo una colonna in marcia faticosa, scagliare granate contro un veicolo, riempire di pallottole qualsiasi velivolo, e sparare prima che fosse possibile qualche reazione efficace.

Inevitabilmente, anche essi subirono le loro perdite.

«Hya-a-a-ah!», gridò Draun di Highsky, e si lanciò giù da una rupe attraverso l’abbagliante vampa del sole. In fondo ad un burrone inaridito, un contingente di terrestri avanzava pesantemente verso il campo, proveniente da una postazione quasi terminata. La polvere rendeva ogni uomo più anonimo di quanto non facesse quel poco che rimaneva dell’uniforme. In mezzo a loro arrancavano le autoblindo, mentre qualche mezzo aereo volava sopra le teste. Una slitta gravitazionale trasportava i cadaveri che si mummificavano rapidamente, e che erano stati ammucchiati in pile.

«Gettateli ai venti infernali!». Il lanciaproiettili tremava nella stretta di Draun. Il rinculo continuava a fargli perdeve l’equilibrio, in mezzo a quelle correnti ascensionali così violente. Si era sempre vantato che le sue ali erano troppo robuste e veloci per risentire di un effetto del genere.

Gli Ythrani schizzavano a bassa quota, facevano fuoco, e risalivano verso l’alto. Draun vide gli uomini cadere come sacchi vuoti. Mentre roteava oltre la portata di tiro, vide che i loro compagni formavano un quadrato, nascondendosi dietro le vetture e l’artiglieria, mentre i velivoli cercavano di proteggerli dall’alto. Combattono ancora con coraggio, pensò, e si domandò se non fosse meglio lasciarli stare. Ma l’idea era proprio quella di costringerli ad una formazione chiusa, per poi lanciargli addosso, in un secondo passaggio, una bomba alla tordenite.

L’assalto, le pallottole e i dardi d’energia, poi i gemiti alle sue spalle, orrendamente familiari. Draun frenò, tornò in zona, e vide Nyesslan, il suo primogenito, la speranza della sua casa, che scendeva a spirale verso il terreno su un’ala e mezza. Lo squadrone Ythrano lo fiancheggiava nel pieno impeto dell’attacco. «Eccomi, ragazzo!». Draun scivolò giù accanto a lui. Nyesslan giaceva a terra svenuto, con il sangue che macchiava la polvere. Il secondo attacco fallì, e degenerò in un confuso svolazzare prima ancora di giungere a portata di tiro. Fedeli all’insegnamento per cui dovevano riunirsi in gruppo, gli Ythrani batterono in ritirata, sparendo alla vista. Un plotoncino si diresse verso Draun. Lui rimase in piedi sopra Nyesslan, e sparò finché ne fu capace.