Ma per intanto, odimi bene: all’interno di questo pacchetto troverai un frammento di pergamena. Vai in un luogo remoto e giunto costà strappalo e gettalo al suolo. All’istante tutt’intorno a te comparirà un bel giardino con frutti meravigliosi, statue e padiglioni. Potrai usare di questo giardino come vorrai, salvo che, se qualsivoglia persona vi entrerà, o anche tu stesso, portando una spada o un qualsiasi altro oggetto, per quanto piccolo fatto di ferro, tale giardino sparirà all’instante senza mai più riapparire.
Ciò tu potrai verificare quando vorrai. Per il resto, io sono come un prigioniero che trema alla porta stessa del Paradiso, impedito a procedere aldilà dell’anticamera da quel Potere stesso che mi nega l’essenza vera dei misteri e mi concede soltanto le briciole… che, comunque, sono meraviglie più grandi di quelle mai con certezza praticate prima d’ora. Per esempio, la pergamenta che ti mando. Quest’arte io l’ho praticata parecchie volte. Ho nella mia bisaccia molti sigilli del genere, fatti per me dal Potere dietro mia preghiera. Ma quando ho portato via di nascosto altre pergamene e copiato su di esse i simboli stessi con la massima esattezza, si sono mostrate inutili. Ci sono parole o formule che vanno pronunciate sopra di esse o — lo ritengo più probabile — un sigillo più grande che dona alle pergamene la loro magica proprietà. Sto iniziando a preparare un piano, un piano molto ardito, per impadronirmi anche di quel sigillo.
Ma tu vorrai sapere dell’Operazione e dei suoi esiti. Sono tornato a Montevecchio partendo da Padua in tre giorni di viaggio. Il contadino che aveva operato i prodigi era morto, giacché i villici, ancora intimoriti, gli avevano maciullato il cervello con magli e martelli. Ciò mi ha fatto in verità piacere, poiché temevo che dicesse ad altri la Parola e il Nome che mi aveva rivelati. Ho parlato al prete e gli ho detto di essermi recato a Padua per assicurarmi il consiglio di alti dignitari riguardo l’attuazione di quei prodigi, e che ero stato rinviato a Montevecchio con ordini speciali di cercare ed esorcizzare l’immondo demone che aveva insegnato al contadino simili demoniache meraviglie.
Il giorno dopo, con l’aiuto del medesimo prete!, ho portato in cima alla collina le spezie, i ceri e le altre cose necessarie all’Operazione. Il prete tremava, ma sarebbe rimasto, se non l’avessi mandato via. E, giunta la notte, ho disegnato il cerchio magico e il pentacolo con i Segni al loro giusto posto. Quando si è levata la luna nuova ho acceso gli aromi e i ceri e ho iniziato l’Operazione. Come ben sai, molte volte in passato avevo fallito, ma questa volta ero fiducioso, e mi sentivo del tutto certo. Quando è giunto il momento di servirmi dei Nome e della Parola, li ho invocati entrambi ad alta voce e ho aspettato.
Sulla cima di questa collina ci sono molte pietre grigiastre. Alla terza chiamata del Nome una delle pietre ha tremato e non è stata più pietra. Una voce mi ha chiesto, brusca: «Cos’è tutta questa puzza? È stato il mio messaggero a mandarti qui?»
C’era un’ombra là dov’era stata la pietra e non riuscivo a vedere chiaramente. Ma m’inchinai in quella direzione.
«Potentissimo Potere», proclamai, con la voce che mi tremava poiché l’Operazione aveva avuto successo, «un contadino che operava prodigi mi ha detto che bramavi parlare con un dotto. A paragone di Vostra Potenza io sono un povero ignorante, ma ho consacrato tutta la mia vita a studiare i misteri. Perciò sono venuto a offrirti la mia adorazione, o qualsivoglia altro patto tu possa desiderare, in cambio della suprema saggezza».
C’è stato un agitarsi nell’ombra, e il Potere si è fatto avanti. Il suo aspetto era quello d’una creatura di non più d’un braccio e mezzo di altezza e la sua espressione alla luce della luna era di sardonica impazienza. Il denso fumo aromatico sembrava raccogliersi intorno a lui, formando una nebulosità stretta intorno al suo profilo.
«Penso», replicò con voce asciutta, «che tu sia sciocco almeno quanto il contadino col quale ho parlato. Cosa pensi che io sia?»
«Un principe della razza celestiale, Vostra Potenza», replicai con voce tremante.
Vi fu una pausa. Poi il Potere aggiunse, con una punta di stanchezza: «Gli uomini! Eternamente sciocchi! Oh, uomo, io sono l’ultimo della mia razza che ha viaggiato fin qui a bordo d’una flotta di navi da un’altra stella. Questo tuo piccolo pianeta ha il nucleo composto dal metallo maledetto, che è fatale ai congegni della mia razza. Alcune delle mie navi si avvicinarono troppo. Altre tentarono di aiutarle e condivisero il loro destino. Molti, moltissimi anni fa scendemmo dal cielo e non potemmo più risollevarci. Ora, io solo sono rimasto».
Parlare del mondo come d’un pianeta era un’assurdità, naturalmente. I pianeti sono vagabondi fra le stelle, che viaggiano secondo i loro cicli ed epicicli, come ha spiegato Tolomeo mille anni or sono. Ma ho capito subito che mi stava mettendo alla prova. Così, mi son fatto ardito e ho replicato: «Signore, non ho paura. Non c’è bisogno d’ingannare me. Non so forse di coloro che vennero cacciati dal Paradiso per essersi ribellati? Devo forse scrivere il nome del tuo capo?»
Ha risposto: «Eh?», e ti posso assicurare che pareva un vecchio. Così, sorridendo, gli ho scritto sul terreno il vero nome di Colui che il volgo chiama Lucifero. Ha guardato i segni sul terreno e ha detto: «Bah! Non ha alcun significato. Ancora le vostre leggende! Senti, uomo, presto morirò. Per più anni di quanti tu possa mai credere mi sono nascosto alla tua razza e al suo maledetto metallo. Ho osservato gli uomini e li ho disprezzati. Ma… sto morendo. E non è bene che il sapere perisca con me. È mio desiderio impartire agli uomini quel sapere che altrimenti perirebbe con me. Non può danneggiare la mia specie, e potrebbe dare alla razza degli uomini un qualche livello di civiltà nel corso dei secoli».
Mi sono prostrato a terra davanti a lui. La bramosia m’infiammava.
«Potentissimo», esclamai con gioia. «Puoi fidarti di me. Custodirò alla perfezione i tuoi segreti. Non ne divulgherò mai né un’oncia né una briciola!»
Ancora una volta la sua voce suonò asciutta e infastidita:
«Desidero che questo sapere venga diffuso, cosicché tutti possano imparare. Ma…» e a questo punto ha prodotto un suono che non ho capito, salvo il fatto che pareva di derisione; «…ciò che ho da dire potrebbe servire, persino ingarbugliato e contorto. Non credo che tu terrai inviolati i segreti. Hai penna e pergamena?»
«No, signore!»
«Tornerai di nuovo, allora, pronto a scrivere ciò che ti dirò».
Ma rimase lì a guardarmi. Mi ha fatto domande alle quali ho risposto con zelo. Poco dopo si è messo nuovamente a parlare, in tono meditativo, ed io ho ascoltato, con grande attenzione. Il suo modo di parlare assomigliava stranamente a quello di un uomo solitario, rivolto soprattutto al passato, ma ben presto mi sono reso conto che stava parlando secondo un cifrario, per allegoria, e tra le sue parole, di tanto in tanto, faceva capolino la verità. Quasi volesse rivivere i suoi ricordi, ha parlato del luogo d’origine della sua razza, su quello che, ha detto, è un bel pianeta talmente lontano che parlare di leghe o dell’estensione d’un intero continente sarebbe inutile per riuscire a far capire la distanza. Ha parlato delle città nelle quali la sua gente viveva — e qui non ho avuto nessuna difficoltà a capire, e mi ha raccontato di grandi flotte di oggetti volanti che si levavano da quelle città per raggiungere altre belle città, e di musica che si trovava nell’aria stessa, cosicché ogni persona, dovunque sul pianeta, poteva udire dolci suoni o saggi discorsi, a volontà. In queste faccende non c’era metafora, poiché i dolci, eterni suoni del Paradiso sono ben noti a tutti noi. Ma subito ha aggiunto una metafora, perché, sorridendo, mi ha detto che non c’era un mistero nella creazione di questa musica, bensì che si trattava di onde come quelle della luce, ma più lunghe. E questo era chiaramente espresso in un cifrario, poiché la luce è un fluido impalpabile, senza lunghezza e certamente senza onde!