La spiaggia si avvicinava sempre più alla costa di fronte, e dietro ogni ansa i ragazzi si aspettavano di trovare il punto di congiunzione naturale fra le due. Rimasero ben presto delusi: di lì a poco raggiunsero un gruppo di scogli, vi si arrampicarono e dalla punta più alta videro un lunghissimo tratto di terraferma.
— Caspita — si lamentò Edmund. — Non c’è niente da fare. Non riusciremo mai a raggiungere l’altra sponda, siamo su un’isola.
Edmund aveva ragione. In quel punto il braccio di mare che univa le due sponde era largo fra i trenta e i quaranta metri, ed era anche il punto più stretto. Da lì in poi la spiaggia su cui si trovavano piegava a destra e fra la riva e la terraferma tornava a esserci il mare aperto. Dunque, a conti fatti dovevano aver percorso più di metà dell’isola.
— Ehi, guardate — esclamò Lucy all’improvviso. — Cos’è quello? — Indicò un nastro d’argento che serpeggiava lungo la spiaggia.
— Un ruscello, un ruscello — gridarono gli altri all’unisono, e, assetati com’erano, si precipitarono dagli scogli per raggiungere l’acqua fresca. I ragazzi sapevano che sarebbe stato meglio bere l’acqua che sgorgava più vicina alla sorgente, lontano dalla spiaggia, quindi si diressero verso il luogo in cui il torrente usciva dal bosco. In quel punto il muro degli alberi era ancora più impenetrabile, ma il ruscello aveva scavato un letto profondo fra gli argini alti e muschiosi. Carponi, si poteva risalire il piccolo corso d’acqua passando sotto una specie di tunnel di foglie.
Si inginocchiarono sul bordo della prima pozza che trovarono e bevvero a lungo, con la faccia nell’acqua e le braccia immerse fino al gomito.
— E adesso, ragazzi, che ne facciamo dei panini? — chiese Edmund.
— Secondo me sarebbe meglio tenerli per dopo. Se ci viene una fame tremenda…
— Forse adesso che abbiamo bevuto non sentiremo la fame. Anche prima, quando avevamo sete, non la sentivamo.
— Va bene, ma che ne facciamo? — ripeté Edmund. — Perché conservarli e rischiare che vadano a male? Non dimenticate che qui fa molto più caldo che in Inghilterra e li abbiamo in tasca da almeno un’ora.
Così tirarono fuori i sacchetti dove erano conservati i panini e ne fecero quattro porzioni. Certo nessuno riuscì a saziarsi, ma era meglio di niente.
Cominciarono a pensare come procurarsi altro cibo. Lucy propose di tornare in riva al mare a pescare gamberetti, ma le fecero notare che non avevano reti. Edmund disse che avrebbero potuto raccogliere le uova di gabbiano sulla scogliera, anche se, a pensarci bene, nessuno ricordava di averne viste. In ogni caso, non avrebbero potuto cucinarle. Quanto a quest’ultima obiezione Peter pensò che, a meno di un imprevedibile colpo di fortuna, presto sarebbero stati contenti di mangiarle anche crude; ma tacque e tenne quei pensieri per sé. Susan sostenne che mangiare i panini così presto era stato un errore. A questo punto stavano per perdere la calma, quando Edmund intervenne in modo provvidenziale.
— Ascoltatemi bene. Secondo me resta una sola cosa da fare: esplorare il bosco. Gli eremiti, i cavalieri erranti e quelli come loro sono sempre riusciti a sopravvivere nella foresta. Si nutrivano di radici, bacche e cose del genere.
— Che tipo di radici? — chiese Susan.
— Di alberi, credo — rispose Lucy.
— Andiamo, ragazzi, Ed ha ragione. Dobbiamo darci da fare. Sarà sempre meglio che tornare di nuovo al caldo e al sole accecante.
Si misero in marcia e risalirono il corso del ruscello. Era faticoso perché dovevano chinarsi continuamente sotto i rami e scavalcarne altri. Avanzando con difficoltà attraverso grovigli di piante, i vestiti si strappavano, per non parlare del fatto che i ragazzi erano costretti a camminare con i piedi nell’acqua. Il silenzio era sceso nel bosco, disturbato solo dal mormorio del ruscello e dai rumori che essi stessi facevano.
Erano quasi allo stremo quando sentirono un profumo invitante, e in cima all’argine videro qualcosa che luccicava.
— Sembra un albero di mele — disse Lucy.
Aveva ragione. I quattro si inerpicarono affannosamente lungo l’argine, in verità piuttosto ripido, e si fecero strada attraverso i rovi. Alla fine si trovarono davanti a un albero di mele che pareva molto antico, carico di frutti d’oro grandi e succosi come non se ne vedono spesso.
— Ehi, guardate, non è l’unico. Ce n’è uno là e anche là, e un altro ancora… — esclamò Peter a bocca piena.
— Ce ne sono a decine. — Susan gettò a terra il torsolo della mela che aveva mangiato e cogliendone un’altra. — Prima che questo posto diventasse selvatico e vi crescesse il bosco, doveva esserci un frutteto.
— Quindi l’isola era abitata — notò Peter.
— E quello cos’è? — chiese Susan, puntando il dito davanti a sé.
— Incredibile, un muro! — esclamò Peter. — Un vecchio muro di pietra.
Facendosi largo fra gli alberi carichi di frutta, i quattro ragazzi raggiunsero il muro. Era molto antico, in parte diroccato e a tratti ricoperto di muschio e violacciocche, ed era molto più alto degli alberi. Quando furono ai suoi piedi, videro un arco che un tempo doveva aver ospitato un cancello e adesso era quasi ostruito da un gigantesco albero di mele; per oltrepassarlo dovettero spezzare alcuni rami, e arrivati dall’altra parte chiusero gli occhi perché la luce del giorno si era fatta molto più intensa. Si trovavano in una radura circondata da mura, senza alberi ma con un prato ricco di margherite e l’edera che si arrampicava sui muri grigiastri. Era un posto luminoso, nascosto e quieto, ma anche malinconico. Si guardarono intorno e puntarono tutti e quattro verso il centro del prato, felici di poter stiracchiare le gambe rattrappite e la schiena.
2
L’antica casa del tesoro
— No, non era un giardino — osservò Susan. — Secondo me qui c’era un castello e questo dev’essere il cortile.
— Mmm, capisco cosa vuoi dire — intervenne Peter. — Credo che tu abbia ragione. Il rudere laggiù doveva essere la torre, quello è ciò che rimane della scalinata che portava in cima alle mura. Date un’occhiata ai gradini, ragazzi, quelli più larghi e bassi che arrivano al portale. Era sicuramente l’ingresso alla sala centrale.
— Roba di qualche secolo fa, a prima vista — disse Edmund.
— Eh, sì, secoli fa. Muoio dalla voglia di sapere chi abitava nel castello e in che tempi.
— Ho come una strana sensazione — confessò Lucy.
— Dici sul serio? — chiese Peter, voltandosi verso di lei e guardandola con interesse. — Perché anch’io provo qualcosa di simile. A dire la verità, è la cosa più strana che sia accaduta in un giorno strano. Chissà dove siamo finiti, ragazzi. E chissà cosa significa tutto questo.
Fra una considerazione e l’altra avevano attraversato il cortile, e superato il portale erano entrati in quella che doveva essere stata la sala centrale. Ai ragazzi sembrava di trovarsi ancora all’aperto, perché il tetto della sala era crollato da molti anni e su quello che sembrava il pavimento crescevano erba e margherite. Rispetto al cortile, però, l’ambiente era più piccolo e stretto e le mura decisamente più alte. A un’estremità della sala si distingueva una piattaforma sopraelevata di almeno novanta centimetri.
— Chissà se era veramente il salone d’ingresso. Secondo voi, quella è una terrazza? — chiese Susan.
— Ti sei rincitrullita, per fare una domanda simile? — intervenne Peter, che nel frattempo si era stranamente eccitato. — Quella era la predella, la piattaforma dove veniva collocata la Gran Tavola intorno alla quale sedeva il re circondato dai ciambellani suoi consiglieri. Si direbbe che tu abbia dimenticato che anche noi siamo stati re e regine, e che in quei giorni ci siamo seduti su una predella uguale, nella gran sala del trono.
— Già, nel nostro castello di Cair Paravel — proseguì Susan in una specie di cantilena, come se rivivesse un magico sogno. — Alla sorgente del Grande Fiume che lambisce le sponde di Narnia. Come potrei dimenticare?