Orson Scott Card
Il profeta dalla pelle rossa
In memoria di mio nonno, Orson Rega Card (1891–1984),
che da bambino, trovandosi in pericolo di vita sulla frontiera canadese, venne salvato da un indiano della tribù dei Blood
Nota dell’autore
Questa vicenda si svolge in un’America la cui storia è talvolta simile, talvolta assai diversa da quella dell’America che oggi conosciamo. Il lettore non deve pertanto immaginare che nel libro la presentazione di un personaggio che porta lo stesso nome di una certa figura della storia americana costituisca un ritratto accurato della figura storica in questione. In particolare, va tenuto presente che William Henry Harrison, citato nei manuali di storia per essere stato il presidente durato in carica meno di qualsiasi altro — oltre che per l’indimenticabile slogan elettorale: «Tippecanoe e Tyler» -, era una persona decisamente meno sgradevole del personaggio che in questo libro porta il suo nome.
I miei ringraziamenti a Carol Breakstone per le sue ricerche sulle tradizioni indiane; a Beth Meacham per la Collina Ottagonale e la Cresta delle Selci; a Wayne Williams per la sua eroica pazienza; e a mio bisnonno Joseph per le storie che hanno ispirato la vicenda di questo libro.
Come sempre avviene nel mio lavoro. Kristine A. Card ha ispirato e migliorato ogni pagina di questo libro.
I
HOOCH
Non erano molte le chiatte che scendevano il fiume Hio in quei giorni, per lo meno non con pionieri a bordo, non con famiglie e attrezzi e mobili e sementi e un paio di suini giovani, futuri capostipiti di un branco. Bastavano un paio di frecce incendiarie, e ben presto una qualche banda di Rossi si era messa in saccoccia una sfilza di scalpi mezzi carbonizzati da vendere ai francesi di Detroit.
Ma Hooch Palmer non era afflitto da questo genere di pensieri. Non c’era Rosso che non riconoscesse immediatamente il profilo della sua chiatta, carica com’era di barili disposti su più livelli. Nella maggior parte sciabordava il whisky, che era all’incirca la sola musica che quei Rossi riuscissero a capire. Ma proprio al centro dell’enorme catasta di barili, ce n’era uno che non sciabordava. Era pieno di polvere nera, e ne usciva una lunga miccia.
A che serviva quella polvere nera? Mettiamo che Hooch e i suoi uomini scendessero tranquilli la corrente, governando la chiatta con le pertiche intorno a una curva del fiume, e a un tratto si fossero trovati la via sbarrata da una mezza dozzina di canoe gremite di quella brava gente dei Kicky-Poo, dipinti da capo a piedi. Oppure avessero visto un falò acceso presso la riva, e qualche diavolo Shaw-Nee che ci ballava intorno pronto a infilarci dentro la punta delle frecce incendiarie.
Per la maggior parte della gente ciò significava che era giunto il momento di pregare, combattere e morire. Ma non per Hooch. Ritto al centro della chiatta, con una torcia in una mano e la miccia nell’altra, urlava a squarciagola: «Whisky esplodere! Whisky esplodere!»
Ora, la maggior parte dei Rossi con l’inglese se la cavava maluccio, ma tutti quanti sapevano perfettamente che cosa volessero dire «esplodere» e «whisky». E invece di vedersi piovere addosso una gragnuola di frecce o di essere abbordati da una flottiglia di canoe, ben presto scorgevano quelle stesse canoe oltrepassarli a tutta velocità tenendosi sul lato opposto del fiume. Qualche Rosso sbraitava: «Carthage City!» e Hooch urlava di rimando: «Sicuro!», e le canoe si allontanavano di gran carriera sulle acque del fiume Hio, dirette là dove ben presto sarebbe zampillato il liquore.
Era la prima volta che i ragazzi alle pertiche si trovavano sul fiume, e non sapendo tutto quello che sapeva Hooch Palmer non appena scorsero quei Rossi armati di frecce incendiarie quasi se la fecero addosso dalla paura. E quando videro Hooch con quella torcia accostata alla miccia, stavano per buttarsi a capofitto nel fiume. Hooch rise fino alle lacrime. «Voialtri non sapete nulla di Rossi e di liquore» disse. «Non si sognerebbero mai di fare niente che possa far cadere nell’Hio una sola goccia di whisky. Ciascuno di loro ucciderebbe la madre senza pensarci due volte, se si mettesse tra loro e uno di quei barili, ma noi non oseranno toccarci finché ci sarà quella polvere pronta a esplodere se solo cercano di mettermi le mani addosso.»
Anche se in privato i suoi uomini potevano domandarsi se Hooch avrebbe veramente fatto saltare la zattera, ciurma e tutto, è bene dire che Hooch l’avrebbe fatto per davvero. Non era un gran pensatore, né tipo da dedicare molto tempo alle meditazioni sulla morte, sull’aldilà o su analoghe questioni filosofiche, ma a una conclusione era pur giunto: se doveva crepare, sicuramente non sarebbe crepato da solo. E di un’altra cosa era convinto: che se qualcuno l’avesse ammazzato, non ne avrebbe ricavato il minimo vantaggio. Soprattutto se si fosse trattato di qualche verme rosso ubriacone armato di un coltello da scalpi.
Ma l’aspetto più divertente della cosa non lo sapeva nessuno, ed era che Hooch non avrebbe avuto bisogno di una torcia, e neanche di una miccia. Anzi, a scanso d’incidenti quella miccia non andava neanche a finire dentro il barilotto della polvere. No, se mai Hooch avesse voluto far saltare la chiatta, avrebbe soltanto dovuto mettersi lì e pensarci un po’ sopra. E ben presto la polvere avrebbe cominciato a scaldarsi, e magari avrebbe fatto un po’ di fumo, e poi, bam!, sarebbe esplosa.
Proprio così. Il vecchio Hooch era una scintilla. Certo, c’è chi sostiene che le scintille non esistono, e a mo’ di prova dice: «Avete mai conosciuto una scintilla, o saputo di qualcuno che l’avesse conosciuta?» Ma questa non è affatto una prova. Perché, se ti capitasse di essere una scintilla, mica andresti a raccontarlo ai quattro venti, no? Sono servizi per cui non c’è una gran richiesta; troppo facile usare pietra e acciarino, o magari quegli zolfanelli alchemici che ci sono adesso. No, l’unico vantaggio che deriva dall’essere una scintilla è quando si vuole incendiare qualcosa da lontano, e questo può avvenire soltanto per uno scopo malvagio: far del male a qualcuno, bruciare un edificio, far saltare in aria qualcosa. E se uno offre questo genere di servizi, non espone certo un cartello con su scritto: SCINTILLA OFFRESI.
Peggio ancora, se si sparge la voce che sei una scintilla, puoi star sicuro che tutti quanti non perderanno occasione per metterti nel mezzo. Un ragazzo va a farsi una pipata nel fienile, e il fienile prende fuoco: figuriamoci se il ragazzo si sogna di dire: «Sì, papà, sono stato io». Nossignore, il ragazzo si affretta a dire: «Sai, papà? Dev’essere stata una scintilla!» e subito quelli vengono a cercare te, il capro espiatorio del circondario. No, Hooch non era uno stupido. Non l’aveva mai detto a nessuno, che aveva il potere di dar fuoco alle cose.
C’era un altro motivo per cui Hooch non usava troppo di frequente i suoi poteri. Era un motivo così segreto che lo stesso Hooch non ci pensava volentieri. Il fatto è che il fuoco gli faceva paura. Una paura che gli veniva dal profondo. Allo stesso modo, c’è chi ha paura dell’acqua, e va per mare; e chi ha paura della morte, e fa il becchino; e chi ha paura di Dio, e fa il pastore d’anime. Insomma, Hooch temeva il fuoco più di qualsiasi altra cosa, e per questo motivo ne era attratto, anche se lo stomaco gli si torceva dalla nausea; e quando si trovava nella necessità di dar fuoco a qualcosa, nicchiava, rimandava, inventava mille scuse per non farlo. Hooch aveva un dono, ma era incredibilmente riluttante a farne uso.
Ma in questo caso l’avrebbe fatto. Prima di permettere a un Rosso di mettergli le mani addosso, avrebbe fatto saltare quella polvere, se stesso, i suoi uomini e tutto il suo liquore. Nonostante tutta la paura che aveva del fuoco, Hooch l’avrebbe vinta in men che non si dica, purché l’avessero mandato sufficientemente fuori dei gangheri.