Ta-Kumsaw avanzò fino al punto in cui si era trovato Hooch, e lasciò che la propria calma prendesse il posto della turbolenza che il Bianco vi aveva lasciato. Ben presto il ronzio infuriato degli insetti si acquietò. L’odore del trafficante di liquori svanì. L’acqua tornò a lambire la riva col suo canto dal ritmo imprevedibile.
Quant’era facile guarire la terra dopo che l’uomo bianco era passato! Se tutti i Bianchi se ne fossero andati all’istante, l’indomani la terra sarebbe stata in pace, e nel giro di un anno non avrebbe più mostrato la minima traccia del passaggio dell’uomo bianco. Perfino le rovine degli edifici costruiti dall’uomo bianco sarebbero tornate a far parte della terra, trasformandosi in rifugio per i piccoli animali, sgretolandosi sotto l’avida stretta dei rampicanti. Il metallo dell’uomo bianco si sarebbe ridotto in ruggine; le case in pietra sarebbero diventate basse colline e piccole grotte; i delitti dell’uomo bianco sarebbero diventati note malinconiche nel canto melodioso del pettirosso, perché il pettirosso ricordava tutto, trasformandolo, se poteva, in bontà.
Ta-Kumsaw restò fuori del forte tutto il giorno, guardando i Rossi che entravano a comprare il veleno che li avrebbe uccisi. Uomini e donne di ogni tribù — Wee-Aw, Kicky-Poo, Potty-Wottamee, Chippy-Wa, Winny-Baygo e Pee-Orawa — entravano carichi di pelli o canestri, e quando uscivano non portavano che tazze o caraffe di liquore, o addirittura solo ciò che si erano già messi nello stomaco. Ta-Kumsaw non apriva bocca, ma sentiva come nel bere quel veleno i Rossi recidessero il loro legame con la terra. Non che usassero violenza al verde della vita come faceva l’uomo bianco; piuttosto, era come se non esistessero più. Per la terra, l’uomo rosso che beveva whisky era già morto. No, neanche morto, perché alla terra non restituiva proprio nulla. Queste cose le disse solo dentro di sé, ma la terra avvertì il suo dolore, e la brezza gli rispose singhiozzando tra le foglie.
Al crepuscolo, un pettirosso saltella nella polvere di fronte a Ta-Kumsaw.
Raccontami una storia, dice il pettirosso alla sua maniera, inclinando il capo verso l’alto per guardare il Rosso silenzioso.
La mia storia la conosci ancor prima che io te la racconti, dice silenziosamente Ta-Kumsaw. Senti le mie lacrime prima che io le sparga. Senti il mio sangue prima che io lo versi.
Perché soffri per uomini rossi che non appartengono alla tribù degli Shaw-Nee?
Prima che arrivasse l’uomo bianco, dice silenziosamente Ta-Kumsaw, non capivamo che tutti gli uomini rossi erano uguali, fratelli sulla stessa terra, perché pensavamo che tutte le creature fossero così; perciò litigavamo tra uomini rossi come l’orso litiga col puma, il topo muschiato col castoro. Poi è arrivato l’uomo bianco, e ho capito che in confronto a lui tutti gli uomini rossi sono come gemelli.
Che cos’è l’uomo bianco? Che cosa fa?
L’uomo bianco è come un essere umano, ma schiaccia sotto i suoi piedi ogni altra creatura.
E allora perché, Ta-Kumsaw, quando guardo nel tuo cuore, perché non vuoi ferire l’uomo bianco, perché non vuoi uccidere l’uomo bianco?
L’uomo bianco non capisce il male che fa. L’uomo bianco non sente la pace della terra; come potrebbe rendersi conto delle piccole morti che provoca? Non posso incolparlo di niente. Ma non posso permettergli di restare. Perciò, quando lo costringerò ad abbandonare questa terra, non lo odierò.
Se non conosci l’odio, Ta-Kumsaw, riuscirai certamente a scacciarlo.
Non gli farò più male di quello che sarà necessario a mandarlo via.
Il pettirosso annuisce. Una volta, due, tre, quattro. Svolazza su un ramo all’altezza della testa di Ta-Kumsaw. Intona una nuova canzone. In questa canzone Ta-Kumsaw non ode parole, ma sente raccontare la propria storia. D’ora in avanti la sua storia sarà nel canto di ogni pettirosso di questa terra, perché quando un pettirosso viene a sapere qualcosa, tutti i suoi simili la ricordano.
Chiunque avesse osservato Ta-Kumsaw in quel frattempo non avrebbe avuto modo di capire niente di ciò che egli aveva detto, visto o udito. Lo Shaw-Nee non si era mosso, né il suo viso aveva rivelato la minima emozione. Un pettirosso gli era atterrato accanto, era rimasto lì per qualche istante, aveva cantato e se n’era andato.
Eppure quell’istante trasformò la vita di Ta-Kumsaw; e lui lo capì immediatamente. Fino a quel giorno era stato solo un ragazzo. La sua forza e il suo incrollabile coraggio erano oggetto di ammirazione, ma quando parlava era solo uno come tanti altri, e dopo aver parlato taceva e attendeva che a decidere fossero gli anziani della tribù. Ora avrebbe deciso da solo, come un vero capo, come un capo di guerra. Non capo degli Shaw-Nee, né capo degli uomini rossi delle regioni settentrionali, ma piuttosto il capo di tutte le tribù rosse unite nella guerra contro l’uomo bianco. Da molti anni sapeva che la guerra prima o poi sarebbe scoppiata; ma fino a quel momento aveva immaginato che a condurla sarebbe stato qualcun altro, un capo come Pannocchia o Pesce Nero, o magari un Cree-Ek o un Chok-Taw del sud. Ma il pettirosso era venuto da lui, da Ta-Kumsaw, e l’aveva posto nel suo canto. Ora, ovunque Ta-Kumsaw si fosse recato nella terra che conosceva il canto del pettirosso, il suo nome sarebbe stato già noto ai più saggi tra gli uomini rossi. Adesso era il capo di guerra di tutti gli uomini rossi che amavano la terra; era stata la terra stessa a sceglierlo.
In piedi sulla riva dell’Hio, a un tratto gli parve di essere diventato il volto stesso della terra. Il fuoco del sole, il soffio dell’aria, la forza della terra, la rapidità dell’acqua, tutto gli penetrava dentro e si affacciava al mondo attraverso i suoi occhi. Io sono la terra; io sono le mani, i piedi, la bocca e la voce della terra che cerca di liberarsi dall’uomo bianco.
Questi erano i suoi pensieri.
Ta-Kumsaw restò lì fino a notte. Gli altri uomini rossi tornarono alle loro capanne o alle loro case di tronchi per dormire, o per giacere come morti, ubriachi fradici, fino al mattino. Riscuotendosi dallo stato di trance in lui indotto dal canto del pettirosso, Ta-Kumsaw udì risate levarsi dal villaggio dei Rossi, risate e canzoni dagli alloggi dei soldati bianchi all’interno del forte.
Ta-Kumsaw si allontanò dal luogo in cui era stato in piedi per tante ore. Pur sentendosi tutti i muscoli irrigiditi, non barcollava; costringeva le proprie gambe a muoversi fluidamente, e il terreno gli cedeva gentilmente sotto i piedi. Se voleva andare lontano in quella terra, l’uomo bianco doveva portare scarpe pesanti, perché altrimenti il suolo gli avrebbe ostacolato il cammino ferendogli i piedi; l’uomo rosso poteva portare il medesimo paio di mocassini per anni e anni, perché la terra con lui era gentile e accoglieva volentieri i suoi passi. Nel muoversi, Ta-Kumsaw sentiva la terra, il vento, il fiume e il lampo muoversi contemporaneamente nel suo corpo; la terra si trovava dentro di lui con tutto ciò che era vivo, e lui era le mani, i piedi e il volto della terra.
Nel forte si levò un grido, subito ripreso da altre voci:
«Al ladro! Al ladro!»
«Fermatelo!»
«S’è preso un barilotto intero!»
Imprecazioni, urla. Poi il peggiore dei rumori: uno sparo. Ta-Kumsaw attese la fitta lancinante della morte. Non arrivò.
L’ombra di un uomo comparve sul parapetto. Chiunque fosse, aveva un barilotto in equilibrio sulle spalle. L’uomo si bilanciò per un momento alla sommità dei pali della staccionata, quindi saltò giù. Ta-Kumsaw capì allora che si trattava di un Rosso, perché nessun Bianco sarebbe riuscito a saltare dall’altezza di tre uomini con una botte piena sulle spalle, toccando terra senza quasi far rumore.