No, lo faccio perché la tremenda umiliazione di una sconfitta in Canada è esattamente ciò di cui la Francia ha bisogno, soprattutto se risulterà evidente che la sconfitta è stata causata dall’intervento diretto di re Carlo, e a maggior ragione se questo intervento diretto è consistito nel rimuovere dal comando alla vigilia della battaglia un uomo brillante e stimato come Bonaparte, sostituendolo con un somaro come de Maurepas: tutto a causa della vanità di Carletto.
Perché c’era anche un’ultima lettera, in codice, apparentemente innocua. Ma sotto le chiacchiere sulla caccia e sul tedio della vita a Niagara era nascosto il testo completo delle due lettere di Napoleone e di Frederic, da pubblicare con effetto dirompente non appena fosse giunta a Parigi la notizia della sconfitta francese in Canada. Quasi contemporaneamente all’arrivo della lettera di Napoleone al re, infatti, Robespierre ne avrebbe avuta tra le mani una copia cifrata.
E il mio giuramento di fedeltà al re? Ero destinato a essere un generale e a condurre eserciti in battaglia; o a essere governatore, e a dirigere la macchina dello Stato a beneficio del popolo. Invece sono ridotto a complottare, pugnalare alla schiena, ingannare, tradire. Sono un nuovo Bruto, disposto a tradire tutto e tutti in nome del bene superiore del popolo. Ma prego Dio che la storia mi riconosca i miei meriti, facendo sapere a tutti che se non fosse stato per me re Carlo si sarebbe fatto chiamare Carlomagno II, e avrebbe utilizzato Napoleone per sottomettere l’Europa intera, creando un nuovo impero francese. Invece, con l’aiuto di Dio, per merito mio la Francia diventerà esempio di pace e libertà per tutti i popoli della terra.
La Fayette accese una candela, lasciò gocciolare la cera sulla chiusura delle due lettere, quella al re e quella al suo fedele amico, quindi vi impresse il suo sigillo. Poi chiamò il suo aiutante, che le mise entrambe nella borsa della posta e uscì per portarle alla nave, l’ultima che sarebbe sicuramente riuscita a scendere il fiume e giungere in Francia prima dell’inverno.
Sulla scrivania restavano solo la lettera a de Maurepas e l’amuleto. Preferirei non averti mai avuto, disse Gilbert rivolto all’amuleto. Se anch’io fossi stato ingannato da Napoleone, adesso non potrei che rallegrarmi del suo inevitabile ingresso nella storia. Invece lo sto ostacolando; com’è possibile infatti che un generale, sia pur brillante come Cesare, possa prosperare nel regime democratico che Robespierre e io sapremo creare in Francia?
Tutti i semi sono stati gettati, tutte le trappole sono state predisposte.
Per un’altra ora Gilbert de La Fayette rimase seduto in poltrona, in preda a un tremito irrefrenabile. Poi si alzò, indossò i suoi abiti più eleganti, e trascorse la serata assistendo a un’insulsa farsa recitata da una compagnia di quart’ordine, la migliore che le magre risorse di Niagara potessero attirare dalla madrepatria. Alla fine si alzò ad applaudire, cosa che, essendo egli il governatore, assicurò alla compagnia il successo finanziario in Canada; applaudì a lungo e con vigore, mentre il resto del pubblico era costretto ad applaudire insieme con lui; applaudì finché le braccia non gli fecero male, finché l’amuleto che portava sul petto non fu viscido di sudore, finché non avvertì il bruciore dello sforzo nei muscoli delle spalle e del dorso, finché non fu più in grado di applaudire.
XVII
IL TELAIO DI BECCA
Ad Alvin sembrava che l’inverno durasse da una mezza eternità. In precedenza la neve gli piaceva, quando poteva sbirciare fuori della finestra attraverso le screpolature della crosta di ghiaccio, e guardare i raggi del sole che si riflettevano abbaglianti sulla candida, intatta superficie di quel mare di neve. Ma a quei tempi se faceva freddo poteva sempre tornare in casa al calduccio, riempirsi la pancia con i manicaretti della mamma e ficcarsi in un morbido letto. Non che adesso soffrisse più di tanto; via via che imparava a vivere come un Rosso, Alvin se la cavava sempre meglio.
Durava da troppi mesi, ecco tutto. Era trascorso quasi un anno da quel mattino di primavera in cui Alvin e Measure avevano intrapreso il viaggio verso il fiume Hatrack. Allora, gli era sembrato un viaggio lunghissimo; adesso, in confronto a tutta la strada che aveva fatto, gli sarebbe parso una gita domenicale. Si erano spinti tanto a sud che i Rossi, quando parlavano la lingua dei Bianchi, usavano più lo spagnolo dell’inglese. Si erano spinti a est fino alle nebbiose pianure alluvionali lungo il Mizzipy. Avevano parlamentato con i Cree-Ek, i Chok-Taw e il «selvaggio» popolo Cherriky del basso corso del fiume. A nord, si erano spinti fino alle estreme diramazioni del Mizzipy, dove i laghi erano tutti collegati uno all’altro e così numerosi che si poteva arrivare dappertutto in canoa.
In ogni villaggio le cose andavano sempre nello stesso modo. «Sappiamo chi sei, Ta-Kumsaw, sei venuto a parlare di guerra. Noi non vogliamo la guerra. Ma… se l’uomo bianco arrivasse fin qui, combatteremmo.»
Allora Ta-Kumsaw spiegava che se mai l’uomo bianco fosse giunto fino al loro villaggio, sarebbe stato ormai troppo tardi, si sarebbero ritrovati soli e i Bianchi si sarebbero rovesciati su di loro come una grandinata, schiacciandoli senza pietà. «Dobbiamo unirci in un solo esercito. In questo modo saremo ancora più forti di loro.»
Non era mai sufficiente. Qualche giovane annuiva, avrebbe voluto dire di sì, ma gli anziani, loro, non volevano la guerra, non volevano la gloria, volevano solo pace e tranquillità, e l’uomo bianco era ancora lontano, solo una diceria da non prendere troppo sul serio.
Allora Ta-Kumsaw si rivolgeva a Alvin e gli ordinava: «Racconta che cosa è accaduto sul Tippy-Canoe».
Quando ebbe raccontato quella storia per la terza volta, Alvin capì che cosa sarebbe accaduto quando l’avesse raccontata per la decima, la centesima, la millesima. Lo capì non appena i Rossi seduti intorno al fuoco si voltarono a guardarlo, con disprezzo perché era bianco, con interesse perché era il ragazzo bianco che viaggiava con Ta-Kumsaw. Per quanto si sforzasse di raccontare solo l’essenziale, per quanto ricordasse che i Bianchi del territorio del Wobbish erano convinti che Ta-Kumsaw avesse rapito e torturato a morte lui e Measure, il cuore degli ascoltatori si gonfiava di dolore e di furia a mala pena trattenuta. Alla fine del racconto gli anziani stringevano convulsamente manate di terra, strappate al terreno come per liberare qualche terribile belva imprigionata nel sottosuolo; e i giovani si passavano delicatamente sulle cosce il coltello dalla lama di selce, disegnando sottili linee di sangue, insegnando al coltello ad avere sete, insegnando al proprio corpo a cercare il dolore e ad amarlo.
«Quando non vi sarà più neve sulle sponde dell’Hio» diceva Ta-Kumsaw.
«Ci saremo» dicevano i giovani, e i vecchi annuivano. Lo stesso in ogni villaggio, in ogni tribù. Oh, ogni tanto qualcuno si alzava a parlare del Profeta e a predicare la pace; ma gli altri lo schernivano dandogli della «vecchia»; anche se per quanto Alvin poteva vedere, le vecchie sembravano le più scatenate di tutti nel dare sfogo al loro odio.
Eppure Alvin non si ribellò mai al fatto che Ta-Kumsaw lo stesse usando per sobillare i Rossi contro la sua stessa gente. In fin dei conti la storia che Alvin doveva raccontare era vera, no? Non poteva rifiutarsi di raccontarla, di fronte a nessuno, per nessuna ragione, più di quanto i suoi familiari potessero rifiutarsi di parlare dopo essere stati colpiti dalla maledizione del Profeta. Certo, se non l’avesse raccontata le sue mani non avrebbero grondato sangue. Ma Alvin si sentiva addosso lo stesso peso di tutti i Bianchi che avevano assistito al massacro del Tippy-Canoe. La storia del Tippy-Canoe era vera, e se ogni Rosso che l’udiva si sentiva colmare d’odio e non desiderava che la vendetta, non desiderava che sterminare ogni Bianco che non se ne fosse tornato in Europa, ebbene, sarebbe stato questo un motivo sufficiente perché Alvin nascondesse loro la verità? O non era forse un loro diritto naturale, quello di conoscere la verità in modo da farne buono o cattivo uso, come meglio credevano?