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Ma dopo un anno trascorso assieme ai Rossi, senza praticamente vedere altri Bianchi se non Measure, quando era andato a curarlo, e Scambiastorie, per un paio di giorni, Alvin non vide quella valle con gli occhi di un Bianco. La vide come l’avrebbe vista un Rosso, e di conseguenza gli parve la fine del mondo.

«Che ci facciamo qui?» chiese a Ta-Kumsaw.

Per tutta risposta, Ta-Kumsaw scese il pendio e s’inoltrò nella valle, come se ne fosse stato il padrone. Alvin non ci capiva niente, ma lo seguì come un’ombra.

Con grande sorpresa di Alvin, mentre lui e Ta-Kumsaw attraversavano un campo arato a metà, il contadino non urlò loro di stare attenti ai solchi, ma si limitò a guardarli a occhi socchiusi e subito dopo a salutarli con la mano. «Salve, Isaac!» esclamò.

Isaac?

Ta-Kumsaw alzò a sua volta la mano in segno di saluto e tirò diritto.

Ad Alvin venne quasi da ridere. Ta-Kumsaw conosciuto tra gli abitanti di un posto civile come quello, e conosciuto così bene che un Bianco l’aveva riconosciuto a un campo di distanza! Ta-Kumsaw, il più spietato cacciatore di Bianchi che quelle boscose regioni avessero mai visto, apostrofato con un nome da Bianco?

Ma Alvin si guardò bene dal chiedere spiegazioni. Si limitò a restare alle calcagna di Ta-Kumsaw, finché questi non giunse dove voleva arrivare.

Sembrava una casa come tutte le altre, forse un po’ più vecchia. Grande, però, e costruita in tempi successivi come un disordinato accumulo di edifici. Forse quell’angolo della casa era la capanna di tronchi originaria con le sue fondamenta di pietra; poi era stata aggiunta un’ala più grande, e la capanna era stata sicuramente trasformata in cucina; sul davanti era stata di certo aggiunta una seconda ala, stavolta a due piani, con una soffitta; poi era stato aggiunto un piano rialzato anche sul retro della capanna, direttamente appoggiato al tetto di quest’ultima, che aveva conservato la forma a punta ed era stato incorniciato con tronchi squadrati, una volta imbiancati a calce; ma ora che la pittura se ne stava andando il legno cominciava a mostrare chiazze grigiastre. In quella casa era racchiusa l’intera storia della valle… prima una capanna tirata su in fretta e furia per tenersi all’asciutto tra una battaglia e l’altra con la foresta; poi un po’ di pace e la possibilità di aggiungere un paio di stanze per stare più comodi; in seguito una certa misura di prosperità, e altri bambini, e il desiderio di presentare al mondo una bella facciata di due piani; infine, quando in quella casa vivevano ormai tre generazioni, il bisogno di costruire non per orgoglio ma per pura necessità di spazio, di stanze in cui mettere a letto i ragazzi.

Così era quella casa, una casa che nella sua forma racchiudeva in sé l’intera storia della vittoriosa battaglia dell’uomo bianco contro la terra.

E Ta-Kumsaw si dirige senza esitare verso una porticina sgangherata sul retro, e senza nemmeno bussare l’apre ed entra.

Be’, a quel punto Alvin per la prima volta non sapeva che cosa fare. Per abitudine, avrebbe voluto seguire Ta-Kumsaw in quella casa, come l’aveva seguito in cento capanne dalle pareti intonacate di fango. Ma per abitudine ancora più antica, sapeva che non si entrava in quel modo in una casa come quella, con una vera porta e tutto quanto. Bisognava andare alla porta principale, bussare educatamente, e attendere che i padroni di casa ti invitassero a entrare.

Perciò Alvin rimase fuori della porta posteriore, che Ta-Kumsaw naturalmente non si era neanche sognato di chiudere, a guardare le prime mosche primaverili entrare ronzando nell’ingresso. Gli sembrava quasi di udire sua madre urlare improperi a chi lasciava la porta aperta così che le mosche entravano in casa e la notte non ti lasciavano dormire. Perciò Alvin fece quello che sua madre gli avrebbe detto di fare in simili circostanze: entrò chiudendosi la porta alle spalle.

Ma una volta entrato non osò avventurarsi oltre l’ingresso. Alla parete erano appesi soprabiti pesanti, mentre accanto alla porta erano disordinatamente ammucchiati stivali incrostati di fango. Trovarsi lì dentro gli sembrava così strano che non osava muoversi. Ascoltava da tanti mesi il verde canto della foresta, che adesso rimase quasi assordato dalla cacofonia di una fattoria di Bianchi in primavera.

«Isaac» disse una voce di donna.

Uno di quei rumori da Bianchi cessò all’improvviso. Solo allora Alvin si rese conto che era stato un rumore vero, di quelli che si udivano con le orecchie, non i rumori della vita che sentiva con i suoi sensi da Rosso. Cercò di ricordare di che si trattasse. Un rumore ritmico e regolare, come… come quello di un telaio. Quello che aveva udito era il rumore di un telaio. Ta-Kumsaw doveva essere entrato senza preavviso nella stanza in cui una donna era intenta a tessere. Ma in quella casa non era un estraneo, anche lei l’aveva chiamato con lo stesso nome usato da quel tale laggiù nel campo. Isaac.

«Isaac» disse di nuovo la donna, chiunque fosse.

«Becca» rispose Ta-Kumsaw.

Un nome come un altro, non c’era motivo perché il cuore di Alvin si mettesse a galoppare all’impazzata. Ma il modo in cui Ta-Kumsaw l’aveva pronunciato, il modo in cui parlava… era un tono di voce inteso a far battere i cuori. E c’era dell’altro: Ta-Kumsaw non parlava più con le strane vocali dei Rossi che pronunciano l’inglese, ma con un accento perfetto, come se fosse nato e cresciuto in Inghilterra. Quando parlava in quel modo, somigliava al reverendo Thrower più di quanto Alvin avrebbe mai creduto possibile.

No, non poteva essere Ta-Kumsaw, doveva essere qualcun altro, un uomo bianco che si trovava nella stessa stanza della donna bianca, ecco tutto. Alvin avanzò a passi felpati nell’ingresso per accertarsi della provenienza di quelle voci, per vedere l’uomo bianco la cui presenza avrebbe spiegato ogni cosa.

Invece si trovò davanti una porta aperta, e guardando dentro vide Ta-Kumsaw che teneva per le spalle una donna bianca, e la guardava negli occhi così come lei guardava nei suoi. Senza scambiarsi una parola, si guardavano e basta. Nella stanza non c’era alcun altro.

«La mia gente si sta radunando presso il fiume Hio» disse Ta-Kumsaw, con quella sua strana voce da inglese.

«Lo so» disse la donna. «È già nell’ordito.» Poi si voltò a guardare Alvin, ritto sulla soglia. «E non sei arrivato solo.»

Alvin non aveva mai visto degli occhi come quelli. Era ancora troppo piccolo per correre dietro alle donne come aveva visto fare a Wastenot e Wantnot quando entrambi avevano superato al galoppo i quattordici anni. Perciò, guardandola negli occhi, non provò niente di simile a ciò che prova un uomo quando desidera una donna. Si limitò a guardare quegli occhi come talvolta gli accadeva di guardare il fuoco, osservando la danza delle fiamme senza alcuna pretesa di scorgervi un senso, ma abbandonandosi alla pura casualità del suo disegno. Così erano gli occhi di Becca, come se quegli occhi avessero visto accadere centomila cose, e tutte quelle cose continuassero a ondeggiarle dietro le pupille, e nessuno si fosse mai curato di richiamare all’esterno quelle visioni ricavandone storie plausibili… o nessuno avesse mai saputo come fare.