«Davvero, Hooch? Be’, forse è come dici, e forse no. Non hai sentito che cos’ha detto? Che prima che io possa mettere le mani addosso a Lolla-Wossiky, quello imparerà a vedere con l’altro occhio. Ma non è un profeta, e presto lo dimostrerò.»
«Già che parliamo dell’orbo, ti avverto che sta cominciando a scoreggiare di brutto.»
Harrison chiamò il suo aiutante. «Mandami immediatamente il caporale Withers e quattro soldati.»
Hooch ammirava il modo in cui Harrison sapeva mantenere la disciplina. Non erano trascorsi trenta secondi dall’ordine, che gli uomini erano già nella stanza, e il caporale Withers salutava dicendo: «Agli ordini, generale Harrison».
«Di’ a tre dei tuoi uomini di portare questo animale nella stalla.»
Il caporale Withers obbedì all’istante, fermandosi solo per dire: «Sissignore, generale Harrison».
Generale Harrison. Hooch sorrise. Sapeva che al massimo Harrison era arrivato al grado di colonnello sotto il generale Wayne, durante l’ultima guerra coi francesi, e anche in quel caso non aveva contato gran che. Generale. Governatore. Che razza di pallone… Ma Harrison si stava nuovamente rivolgendo a Withers, stavolta guardando in direzione di Hooch. «Caporale, tu e il soldato Dickey siete cortesemente pregati di arrestare il signor Palmer e di metterlo sotto chiave.»
«Arrestarmi?» urlò Hooch. «Che diavolo ti prende?»
«In genere gira armato, per cui sarà meglio perquisirlo da capo a piedi» ordinò Harrison. «Prima di metterlo sotto chiave consiglierei anzi di spogliarlo completamente, e di lasciarlo così. Non vorrei che il vecchio volpone se la svignasse.»
«E per quale motivo vuoi farmi arrestare?»
«Te ne sei dimenticato? Abbiamo un mandato di arresto per insolvenza» disse Harrison. «In più, sei stato accusato di vendere whisky ai Rossi. Naturalmente dovremo mettere sotto sequestro tutti i tuoi beni — quei barilotti dall’aria sospetta che i miei ragazzi stanno portando nel forte da stamattina — e venderli in modo da pagare i tuoi creditori. Se riusciamo a venderli a buon prezzo e a farti abbuonare l’infame accusa di aver venduto liquori ai Rossi, be’, allora ti lasceremo andare.»
Poi Harrison uscì piantandolo in asso. Hooch imprecò e sputò e fece ogni sorta di commenti sulla madre e sulla moglie di Harrison, ma il soldato Dickey si teneva ben stretto il suo moschetto, e quel moschetto aveva una baionetta innestata dalla parte giusta, per cui Hooch dovette lasciarsi spogliare e perquisire. Peggio ancora fu però — e qui imprecò di nuovo — quando Withers lo fece marciare attraverso il fortino nudo come un verme, e lo chiuse in un magazzino senza neanche dargli una coperta. Un magazzino pieno di botti vuote dell’ultima spedizione di whisky.
Rimase in quel magazzino per due giorni prima del processo, e sulle prime accarezzò in cuor suo propositi omicidi. Nel pensare a come vendicarsi non si trovò certamente a corto d’idee. Per esempio, avrebbe potuto dar fuoco alle tendine di pizzo a casa di Harrison; oppure avrebbe potuto appiccare un incendio nel deposito del whisky, da dove si sarebbe propagato ovunque. Che vantaggio c’era nell’essere una scintilla, infatti, se non poteva servirsene per pareggiare il conto con gente che prima si dice amica tua, e un momento dopo ti sbatte in gattabuia?
Ma Hooch non diede fuoco a un bel niente, perché non era uno stupido. Prima di tutto sapeva che, una volta scoppiato un incendio all’interno del fortino, era molto probabile che nel giro di un’ora si sarebbe diffuso per ogni dove. Non era poi meno probabile che, mentre tutti correvano qua e là a salvare mogli, figli, polvere da sparo e liquore, a nessuno capitasse di pensare a un certo mercante di whisky rinchiuso in un magazzino. Hooch non aveva molta voglia di finire arrosto in un incendio da lui stesso provocato. Come vendetta, avrebbe lasciato molto a desiderare. Avrebbe avuto tutto il tempo di provocare incendi quando si fosse trovato una corda intorno al collo, ma non aveva la minima intenzione di rischiare la pelle per pareggiare i conti in una questione del genere.
Ma il motivo principale per cui non appiccò incendi non era la paura, era il puro e semplice senso degli affari. Harrison aveva combinato quello scherzetto per far capire a Hooch che non gli piaceva il modo in cui questi ritardava le spedizioni di liquore per far salire i prezzi. Il governatore voleva fargli capire che il vero potere era in mano sua, mentre dalla sua parte Hooch aveva solo il denaro. Benissimo, che Harrison giocasse pure a fare il grand’uomo. Anche Hooch sapeva qualcosa. Sapeva che un giorno o l’altro il territorio del Wobbish avrebbe chiesto al Congresso degli Stati Uniti di diventare uno Stato. E quando ciò fosse avvenuto, un certo William Henry Harrison avrebbe nutrito nel suo cuoricino l’ambizione di diventare governatore. E Hooch aveva visto un numero sufficiente di campagne elettorali a Suskwahenny, in Pennsylvania e negli Appalachi per sapere che, senza un bel mucchio di dollari d’argento da distribuire, di voti se ne vedono ben pochi. E quando fosse giunto il momento, avrebbe potuto essere lui quello che distribuiva i bei dollari d’argento ai futuri elettori di Harrison. Oppure no. Quel giorno, quando Carthage fosse stata una vera città e il Wobbish un vero Stato, avrebbe potuto aiutare qualcun altro a piazzarsi nella residenza del governatore, e allora Harrison avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a ripensare a quando poteva mettere sotto chiave chi voleva, e avrebbe digrignato i denti dalla rabbia ripensando a come uomini del calibro di Hooch avevano mandato il suo sogno in frantumi.
Ecco come fece Hooch a non annoiarsi, seduto in quel magazzino per due lunghi giorni e due interminabili notti.
Poi lo tirarono fuori e lo trascinarono in tribunale, sporco, con la barba lunga, i capelli arruffati e i vestiti tutti gualciti. Il giudice era il generale Harrison, i giurati erano tutti in uniforme, e l’avvocato difensore era… Andrew Jackson! Era evidente che il governatore Bill stava cercando di fargli perdere le staffe, nella speranza che cominciasse a inveire, ma Hooch non era certo nato ieri. Sapeva che qualsiasi cosa Harrison avesse in mente, mettersi a urlare avrebbe potuto solo peggiorare le cose. Non c’era che chinare la testa e sopportare.
Ci vollero solo pochi minuti.
Hooch ascoltò con volto impassibile un giovane tenente testimoniare che tutto il whisky di Hooch era stato venduto al vivandiere del forte allo stesso prezzo della volta precedente, non un centesimo di più né uno di meno. Secondo la documentazione ufficiale, Hooch non aveva ricavato il minimo profitto dall’averli fatti aspettare quattro mesi tra una spedizione e l’altra. Be’, pensò Hooch, in fondo non hanno torto, Harrison vuole farmi capire da che parte tira il vento. Perciò non aprì bocca. Sotto quell’espressione solenne, Harrison si stava divertendo come un pazzo. Divertitevi pure, pensò Hooch. Non riuscirete a farmi arrabbiare.
Ma alla fine ci riuscirono, eccome. Dal mucchio presero duecentoventi dollari e li consegnarono a Andrew Jackson, proprio lì nel bel mezzo dell’aula. Gli contarono in mano undici monete d’oro da venti dollari. Vedendo quel metallo fiammeggiante finire nelle mani di Jackson, Hooch provò un acuto dolore fisico. Allora non riuscì più a trattenersi, pur riuscendo a conservare un tono di voce basso e pacato. «Non mi sembra regolare» disse «che il querelante faccia anche da avvocato difensore.»
«Oh, ma non ti fa da avvocato difensore nella causa per debiti» replicò Vostro Onore il giudice Harrison. «Solo in quella in cui sei accusato di aver venduto alcolici ai Rossi.» Poi Harrison sorrise, e con un colpo di martelletto dichiarò chiusa la questione.
Nemmeno la faccenda dei liquori richiese molto tempo. Jackson presentò una seconda volta le medesime fatture e ricevute, stavolta per dimostrare che tutto il whisky era stato venduto al vivandiere di Fort Carthage, e che ai Rossi non ne era andata neanche una goccia. «Anche se francamente debbo dire» aggiunse Jackson «che la quantità di whisky rappresentata da queste ricevute parrebbe più che sufficiente al consumo di tre anni di un esercito dieci volte più numeroso del vostro.»