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Pressione interna, okay. Ossigeno, okay.

Inclinazione: zero.

Zero?

Il Deepflight è orizzontale. Sobbalza. Karen si riscuote. Anche il controllo della velocità di discesa segna zero.

Profondità: 3466 metri.

Tutt'intorno il nero.

Il batiscafo non affonda più. È sul fondo. Ha raggiunto il fondo del bacino di Groenlandia.

Quasi non si azzarda a guardare l'orologio, perché ha paura di scoprire qualcosa di terribile, che è là sotto da ore, che non avrà abbastanza ossigeno per tornare in superficie, qualcosa del genere. Ma l'indicatore digitale, splendendo tranquillamente, le comunica che la sua discesa è iniziata trentacinque minuti prima. Non riesce a ricordare il momento in cui ha toccato il fondo, ma è andato tutto bene. Le eliche sono ferme, i sistemi attivi. Potrebbe risalire subito.

Poi, improvvisamente, inizia.

Insieme

In un primo momento, Karen pensa a un'allucinazione. Un debole alone blu a una certa distanza. L'apparizione si presenta vorticando e poi sparisce, come se qualcuno avesse soffiato della polvere blu scura dal palmo di una mano gigantesca.

Una nuova luminescenza, stavolta più vicina e con una maggiore superficie. Si ferma e poi si ritira, formando un arco sopra il batiscafo. Karen è costretta a guardare in. alto. Quello che vede le ricorda una nube cosmica. È impossibile dire quanto sia grande e a che distanza si trovi. Karen ha la sensazione di non essere sul fondo del mare, ma di aver raggiunto il bordo di una galassia lontana.

Poi il blu si perde. Per un istante, lei crede che stia diventando più debole, poi teme di essere vittima di un'allucinazione, perché la nuvola si schiude in una più grande che scende lentamente verso il batiscafo.

Allora capisce che, se vuol mandare fuori Rubin, non è una buona idea restare sul fondale.

Il momento è arrivato. Ora o mai più.

Fa uscire gli alettoni laterali e accende le eliche. Il Deepflight scivola per un tratto sul fondo, solleva vortici di sedimenti e si alza. Lampi splendono sull'orizzonte incommensurabile, nero come la notte.

La fusione è iniziata.

L'insieme è gigantesco.

La luce blu splende ovunque. Il Deepflight è sospeso in mezzo alla nuvola in fusione. Karen sa che la gelatina si può contrarre in un tessuto estremamente resistente, ma non vuole soffermarsi a riflettere su quello che potrebbe succedere al batiscafo se quel muscolo composto da esseri unicellulari si dovesse chiudere intorno a lei. Le compare davanti agli occhi l'immagine di un pugno enorme che schiaccia un uovo.

È a poco più di dieci metri dal fondo.

Dovrebbe bastare.

Ora.

La pressione di un dito decide tutto. Basta non aver guardato bene, basta che il dito tremi per il nervosismo e la paura e potrebbe aprire l'abitacolo sbagliato. Morte istantanea. A tremilacinquecento metri di profondità, la pressione è di 385 atmosfere. Non si perde la forma corporea, ma la vita sì.

Karen apre l'abitacolo giusto.

Al suo fianco, la copertura della cabina tubolare del copilota si mette in verticale. L'aria viene espulsa come in un'esplosione e spinge in alto il corpo di Rubin, facendolo uscire in parte. Karen rallenta la velocità del velivolo sottomarino — quasi ingovernabile con un abitacolo aperto — e lo fa abbassare in modo che il corpo di Rubin venga catapultato fuori. Il cadavere nero si staglia sullo sfondo della tempesta blu in avvicinamento. L'ambiente estraneo gli squassa i tessuti e gli organi, gli frantuma il teschio; sotto la pressione della sua stessa muscolatura, gli rompe le ossa e spreme i liquidi corporei.

Tutto è illuminato.

Il corpo di Rubin che ruota su se stesso viene preso dalla gelatina e spinto contro il batiscafo in fuga. L'organismo arriva anche da altre direzioni, da tutte contemporaneamente, da sopra e da sotto. Si stringe intorno al batiscafo e a Rubin, si solidifica, Karen urla per il terrore…

Il batiscafo è libero.

Quasi con la stessa velocità con cui si sono avvicinati, gli yrr si ritirano. Di molto. Sembrano inorriditi. È l'unico modo adatto per descrivere il comportamento degli yrr in quel momento.

Karen sente se stessa gemere.

Il mare intorno a lei è ancora blu. Luci sfumate attraversano l'imponente massa di gelatina che circonda il batiscafo come una muraglia chiusa e insuperabile. Karen gira la testa e vede il volto fracassato di Rubin illuminato debolmente dagli strumenti della console. È stato schiacciato dal tessuto in contrazione contro un lato iella cupola e fissa l'interno con le orbite vuote. Gli occhi sono stati sciolti dalla pressione idrostatica e al loro posto c'è solo un liquido che cola. Poi il cadavere si stacca lentamente e ricade nella notte. Di nuovo è solo un'ombra sullo sfondo illuminato, cade con un movimento stranamente avvitato, come se facesse una danza goffa e infinitamente lenta in onore di dei pagani.

Karen trae un profondo respiro e si costringe alla calma. In altre circostanze, sarebbe già stata male, ma non ha semplicemente tempo per farlo.

L'anello continua a ritirarsi e si avvolge su se stesso. Da sotto riemerge il nero. Onde attraversano i bordi dell'organismo, che si arrotola sempre di più, mentre il cadavere di Rubin si fonde con l'oscurità. Contemporaneamente, dall'alto giungono alcuni tentacoli sottili a punta, simili a liane della foresta vergine. Sono coordinati e hanno una meta precisa. Trovano Rubin e iniziano a toccarlo. Karen non riesce a vedere il corpo, ma il sonar lo rileva e i movimenti cauti dei tentacoli fanno concludere che essi stanno toccando una figura umana.

Sulle punte si formano fili ancora più sottili che toccano ogni singola parte del corpo. Di tanto in tanto scivolano l'uno sull'altro, come se stessero facendo un silenzioso consulto. A differenza di tutto ciò che Karen aveva visto degli yrr fino a quel momento, i tentacoli splendono di un bianco cangiante. Il tutto crea un effetto coreografico, un balletto silenzioso. D'un tratto Karen risente la musica della sua infanzia: La plus que lente di Debussy, il valzer «più che lento», il pezzo preferito da suo padre. È sbigottita e incantata, ogni paura sparisce. Naturalmente là sotto non c'è nessuno che suona La plus que lente, ma ci sarebbe stato bene, perché quel gioco esplorativo è di una bellezza mozzafiato, e in quel momento Karen non riesce a vedere altro che la…

… bellezza.

In mezzo a quella bellezza, lei ha ritrovato i suoi genitori.

Karen solleva la testa.

Sopra di lei si avvolge una campana gigantesca splendente di blu, alta come il cielo.

Karen non crede in Dio, ma è costretta a ricordarselo per non mettersi a mormorare qualche preghiera. Ricorda Samantha Crowe, che aveva parlato degli extraterrestri forgiati sul modello umano, del narcisismo degli uomini nella rappresentazione delle altre specie, della loro assoluta incapacità di dare spazio a visioni più coraggiose. Forse Samantha avrebbe criticato quella purezza della luce, e si sarebbe augurata una luce meno carica di simboli di quel sacro bianco. Ma esso non è paragonabile a nulla. È bianco solo perché la bioluminescenza produce spesso luce bianca, come pure blu, verde o rossa. Non è la manifestazione di un dio, ma soltanto un effetto generato da organismi unicellulari capaci di produrre luce. Tuttavia, a parte questo, quale dio simile agli uomini si manifesterebbe sotto forma di tentacoli?

La cosa che fa quasi impazzire Karen è che non esiste possibilità di ritorno. Non si può più discutere se gli organismi unicellulari possono sviluppare l'intelligenza o no. La questione è chiusa: l'autorganizzazione di queste cellule porta alla conclusione che si tratti di vita consapevole di se stessa, e non di un comportamento mimetico altamente sviluppato. Quando si sono infilati nello scafo dell'Independence coi loro tentacoli, gli yrr si sono assicurati un posto nel gabinetto degli orrori della storia; mostri gelatinosi rispetto ai quali i marziani di Wells sembrano imbranati. Tutto ciò perde ogni importanza di fronte a quello spettacolo fantastico e mai visto. Ciò che Karen vede è la prova definitiva dell'esistenza di un'intelligenza non umana.