«Mi piacerebbe assistervi, maestà.» “Molto più di quanto tu non immagini.” Sansa aveva parlato in tono distaccato e cordiale, ma gli occhi di Joffrey si erano ridotti a due fessure, come se lui stesse cercando di decidere se lo stesse prendendo in giro. «Gareggerai anche tu nel torneo quest’oggi?» Sansa si affrettò ad aggiungere.
Il re aggrottò la fronte. «La lady mia madre dice che non sarebbe corretto, visto che il torneo è in mio onore. Altrimenti, sarei stato io il campione. Non è forse così, Mastino?»
«Contro una schiera come questa?» La bocca del Mastino si contrasse. «Perché no?»
Nel torneo in onore di suo padre, ricordò Sansa, era stato proprio lui il campione.
«E tu gareggerai, mio signore?» domandò Sansa al Mastino.
«Non vale nemmeno la pena che mi metta l’armatura» la voce di Clegane grondava disprezzo. «Questo è un torneo di cimici.»
«Fiero è l’abbaiare del mio mastino» rise il re. «Forse dovrei ordinargli di duellare con il campione. All’ultimo sangue.» Joffrey adorava far combattere altri uomini all’ultimo sangue.
«Ti perderesti un altro cavaliere.» Il Mastino non aveva mai prestato giuramento come cavaliere. Suo fratello era un cavaliere, e lui odiava suo fratello.
Risuonò uno squillo di trombe. Il re tornò ad accomodarsi sul suo scranno e prese la mano di Sansa. Un tempo, a quel gesto il suo cuore avrebbe battuto più rapido. Ma questo solo fino al giorno in cui lui aveva risposto alle sue invocazioni di clemenza presentandole la testa mozzata di suo padre. Adesso il suo tocco la riempiva di repulsione, ma lei aveva imparato a non darlo a vedere. S’impose di restare immobile.
«Ser Meryn Trant della Guardia reale» annunciò un araldo.
Ser Meryn fece ingresso dal lato occidentale del cortile, in sella a un corsiero candido dalla fluente criniera grigia. Era protetto da una corazza smaltata di bianco con ornamenti d’oro. La sua cappa svolazzava dietro di lui come un campo innevato. Portava una lancia lunga dodici piedi.
«Ser Hobber della nobile Casa Redwyne di Arbor» intonò l’araldo.
Ser Hobber arrivò dal lato orientale, montando uno stallone nero con gualdrappa nei colori borgogna e blu. La sua lancia era dipinta a strisce degli stessi colori e sullo scudo c’era il grappolo d’uva simbolo della sua casata. I gemelli Redwyne erano ospiti, loro malgrado, della regina, proprio come Sansa. Lei non poté fare a meno di domandarsi chi avesse avuto l’idea di farli gareggiare nel torneo in onore di Joffrey; certamente non l’avevano fatto di loro spontanea volontà.
Al segnale del maestro delle cerimonie, i due contendenti abbassarono le lance e diedero di speroni, accompagnati dalle grida dei lord, delle lady e degli armigeri della Guardia cittadina che assistevano dagli spalti. I due cavalieri arrivarono a contatto pressoché nel centro del cortile. Ci fu un duro urto di legno e di acciaio. La lancia bianca e quella a strisce esplosero quasi simultaneamente in un doppio vortice di schegge multicolori. All’impatto, Hobber Redwyne ondeggiò malamente, tuttavia riuscì in qualche modo a restare in sella. I due cavalieri raggiunsero l’estremità delle loro corsie, girarono i cavalli, gettarono a terra i resti delle lance distratte e ne accettarono due nuove dai rispettivi scudieri. Ser Horas Redwyne, gemello di ser Hobber, urlò al fratello grida di incoraggiamento.
Al secondo passaggio, ser Meryn fece vibrare a segno la punta della sua lancia e centrò ser Hobber in pieno petto, disarcionandolo e mandandolo a rotolare fragorosamente a terra.
«Pessima cavalcata» commentò re Joffrey.
«Ser Balon Swann di Stonehelm alla Fortezza Rossa» annunciò l’araldo.
Ampie ali bianche svettavano dall’elmo da combattimento di ser Balon, e sul suo scudo si scontravano un cigno bianco e uno nero.
«Morros della Casa Slynt, erede di lord Janos di Harrenhal.»
«Ma tu guarda quel ridicolo sciocco» gridò Joffrey, in modo da farsi sentire da metà degli spalti.
Morros, un semplice scudiero, e addirittura scudiero novello, aveva seri problemi a impugnare lancia e scudo. La lancia era l’arma dei cavalieri, questo Sansa lo sapeva bene, e gli Slynt erano di basso lignaggio. Prima che Joffrey lo nominasse membro del Concilio e gli desse Harrenhal, Janos Slynt era stato nient’altro che il comandante della Guardia cittadina.
“Spero che cada e che si copra di vergogna” pensò con rabbia. “Spero che ser Balon lo uccida.” Dopo che Joffrey aveva decretato la morte di suo padre, era stato Janos Slynt a sollevare per i capelli la testa mozzata di lord Eddard perché il re e tutta la folla potessero ammirarla, mentre Sansa urlava e piangeva.
Sopra un’armatura nera con svolazzi d’oro, Morros indossava una cappa a scacchi neri e dorati. Sul suo scudo campeggiava la picca insanguinata che suo padre aveva scelto quale simbolo della loro nuova casata. Ma di quello scudo, nel lanciare il suo cavallo in avanti, non sembrava sapere bene che cosa fare. La punta di ser Balon colpì il blasone con la picca nel centro esatto. Morros lasciò cadere la lancia, lottando per restare in equilibrio, ma non vi riuscì. Nello scendere dalla sella, un piede gli restò impigliato nella staffa e il destriero fuori controllo lo trascinò fino alla fine della corsia, la sua testa che rimbalzava contro il terreno. Joffrey urlò la propria derisione. Sansa stentava a crederci: che gli dei avessero davvero esaudito la sua preghiera di vendetta? Invece, quando Morros Slynt venne finalmente sciolto dal suo cavallo, si accorsero che era pesto e insanguinato, eppure vivo.
«Ti abbiamo dato l’avversario sbagliato, Tommen» il re disse al fratello. «Il cavaliere di paglia è ben più temibile di quel buffone.»
Venne il turno di ser Horas Redwyne. Fece meglio del suo gemello, sconfiggendo un anziano cavaliere il cui simbolo era un grifone argentato su strisce bianche e blu. Pur splendido nell’aspetto, il vecchio diede scadente prova di sé. Le labbra di Joffrey si serrarono: «Questo è uno spettacolo deludente».
«Te l’avevo detto» rincarò il Mastino. «Cimici.»
Il re cominciava ad annoiarsi e ciò metteva in ansia Sansa. Abbassò lo sguardo e decise di rimanere quieta, a tutti i costi. Ogni volta che l’umore di Joffrey Baratheon peggiorava, qualsiasi parola poteva provocare uno dei suoi accessi di rabbia.
«Lothor Brune, mercenario al servizio di lord Baelish» si fece nuovamente udire l’araldo. «Ser Dontos il Rosso, della Casa Hollard.»
Il mercenario, un uomo di bassa statura in un’armatura tutta ammaccata e priva di qualsiasi simbolo, apparve come dovuto all’estremità ovest della corsia. Del suo avversario, invece, nessuna traccia. Finalmente, in un turbinare di sete porpora e scarlatte, entrò sulla scena uno stallone castano, ma ser Dontos non era in sella. Il cavaliere apparve qualche attimo dopo, imprecando e barcollando, con indosso solamente la corazza e un elmo piumato. E nient’altro. Le sue gambe erano scarne e pallide, la sua virilità ballonzolava oscenamente mentre lui dava la caccia al cavallo. Gli spettatori insorsero, urlando insulti. In qualche modo, ser Dontos riuscì ad afferrare le briglie e cercò di montare in sella, ma l’animale continuava a trottare e il cavaliere era talmente ubriaco da non riuscire a infilare il piede scalzo nella staffa.
A quel punto, l’intera folla era scossa dalle risate… solo il re non rideva. E c’era un lampo nei suoi occhi che Sansa ben ricordava, la medesima luce malefica che aveva visto in lui di fronte al Grande Tempio di Baelor, quando aveva decretato la morte di lord Eddard Stark. Alla fine, ser Dontos il Rosso decise di rinunciare una volta per tutte, cadde a sedere sulla terra rivoltata dagli zoccoli e si tolse l’assurdo elmo piumato.
«D’accordo, ho perso» gridò al cielo. «Ehi, portatemi del vino!»