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«Un barile dalle cantine!» tuonò il re, balzando in piedi. «Voglio godermi lo spettacolo mentre ci annega dentro!»

«No!» Sansa udì la propria voce erompere suo malgrado. «Non puoi farlo!»

«Che cosa?» Joffrey si voltò a guardarla. «Che cosa hai detto?»

Sansa stessa non riusciva a crederci. Era impazzita o cosa? Dirgli “no” davanti a tutta la corte? Non era sua intenzione contraddirlo, solo che… ser Dontos era un ubriacone, stolido e inutile, ma non faceva del male a nessuno.

«Hai forse detto che non posso? Lo hai detto?»

«Ti prego… Volevo solo dire… che porterebbe sventura, maestà… uccidere un uomo il giorno del tuo compleanno.»

«Stai mentendo.» Joffrey digrignò i denti. «Visto che ci tieni tanto, forse dovrei annegarti insieme a lui.»

«Non tengo affatto a lui, maestà.» Le parole di Sansa sgorgarono con la forza della disperazione. «Annegalo, decapitalo se preferisci ma, ti prego… uccidilo domattina. Non oggi… non il giorno del tuo compleanno. Non potrei tollerare se la sventura si abbattesse su di te. Terribile sventura, anche per i re, dicono i cantastorie…»

Joffrey si accigliò. Sapeva che lei stava mentendo, e lei se ne accorse. L’avrebbe fatta sanguinare per questo.

«La ragazza dice il vero» ringhiò il Mastino. «Ciò che un uomo semina nel giorno del suo compleanno, raccoglierà per tutto l’anno a venire.»

Clegane aveva parlato in tono piatto, come se non gli importasse affatto se il re gli credeva o no. Che fosse vero? Sansa non lo sapeva: aveva pronunciato quelle parole solo per evitare il castigo.

Irritato, Joffrey si agitò sul suo scranno e fece un gesto con le dita all’indirizzo di ser Dontos: «Portatelo via. Lo farò uccidere domattina, questo buffone».

«Proprio così» confermò Sansa. «È un buffone, e tu sei molto astuto ad averlo capito. Sarebbe più adatto come giullare che come cavaliere, non trovi? Dovresti fargli indossare un berretto a sonagli e trasformarlo in un vero giullare. Non merita la clemenza di una morte rapida.»

Il re la studiò per un lungo momento.

«Forse non sei poi così stupida come dice mia madre» commentò, poi alzò la voce: «Hai sentito la mia dama, Dontos? Da questo giorno in avanti, sarai tu il mio nuovo giullare. Puoi dormire insieme a Faccia di Luna e metterti il berretto a sonagli».

Ser Dontos, messo a confronto con la morte e di colpo perfettamente lucido, si trascinò carponi. «Ti ringrazio, maestà. E anche te, mia lady. Grazie.»

Una masnada di guardie dei Lannister lo condusse via dal terreno del torneo. Il maestro di cerimonie andò ad accostarsi al palco reale. «Maestà, vuoi che chiami un altro sfidante per Brune o preferisci passare alla prossima tenzone?» domandò.

«Nessuna delle due cose. Queste sono cimici, non cavalieri. Li farei mettere tutti a morte, se non fosse il mio compleanno. Il torneo finisce qui. Toglietemeli dalla vista, tutti quanti.»

Il maestro di cerimonie s’inchinò, ma il principe Tommen non fu altrettanto obbediente: «Io devo ancora cavalcare contro l’uomo di paglia».

«Non oggi.»

«Ma io voglio cavalcare!»

«Non m’importa quello che vuoi.»

«Mamma ha detto che potevo!»

«È vero» confermò la principessa Myrcella.

«Mamma ha detto così, eh?» li derise Joffrey. «Non siate infantili.»

«Noi siamo bambini» ribatté Myrcella con aria di sfida. «E i bambini sono infantili.»

Il Mastino rise. «Questa volta ti ha messo all’angolo.»

«Molto bene» Joffrey accettò la sconfitta. «Nemmeno mio fratello potrebbe far peggio di questi grandi guerrieri. Maestro di cerimonie, porta la quintana… Anche Tommen vuol essere una cimice.»

Tommen emise un grido di gioia e corse a prepararsi, le sue gambette grassocce che vorticavano. «Buona fortuna» gli gridò dietro Sansa.

La quintana fu sistemata all’estremità delle corsie mentre il pony del principe veniva sellato. L’avversario di Tommen era un guerriero di cuoio, delle dimensioni di un bambino, riempito di paglia e montato su un perno girevole. Impugnava uno scudo in una mano e stringeva un mazza imbottita nell’altra. Sull’elmo del finto cavaliere, qualcuno aveva collocato un paio di corna di cervo. Anche re Robert, il defunto padre di Joffrey, aveva corna di cervo sul proprio elmo da guerra, ricordava Sansa… come pure suo zio, lord Renly, fratello di Robert, il quale però aveva tradito e ora si proclamava re.

Un paio di scudieri chiusero le fibbie dell’armatura di Tommen, istoriata d’argento e di porpora. Dalla cresta del suo elmo spuntava uno svolazzante piumaggio color porpora, sul suo scudo, il leone dei Lannister e il cervo incoronato dei Baratheon sembravano giostrare. Gli scudieri lo aiutarono a montare e ser Aron Santagar, maestro d’armi della Fortezza Rossa, fece un passo avanti e diede a Tommen una lunga spada d’argento opportunamente spuntata con lama a forma di losanga, l’elsa sagomata sulla mano di un bambino di otto anni.

«Castel Granito!» Alzando la spada verso il cielo, Tommen gridò il nome della sua nobile Casa con la sua vocetta infantile, poi diede di speroni, lanciando il pony sulla dura terra della corsia, verso la quintana. Lady Tanda e lord Gyles iniziarono una sorta di grido d’incoraggiamento e Sansa aggiunse la propria voce alle loro. Il re, di pessimo umore, rimase in silenzio.

Tommen fece accelerare il pony fino a un rapido trotto, mulinò vigorosamente la spada e piazzò un solido colpo sullo scudo del cavaliere passando oltre, ma non abbastanza in fretta: la quintana mulinò sul proprio asse e la mazza imbottita inferse un duro colpo sul retro dell’elmo del piccolo principe. Tommen volò giù di sella. All’impatto con il terreno, la sua nuova armatura sferragliò come un sacco pieno di vecchie pentole. La sua spada volò via, mentre il pony si allontanò al galoppo attraversando il cortile. Dagli spalti si levò una tonante ondata di risate di scherno. Una in particolare soverchiava tutte le altre: quella di re Joffrey, che continuò anche quando le altre si furono spente.

«Oh, no!» gridò la principessa Myrcella sgusciando fuori dal palco reale per correre ad aiutare il fratellino.

Per la seconda volta, Sansa si ritrovò come posseduta da una strana forma di coraggio. «Anche tu dovresti andare con lei» suggerì al re. «Tuo fratello potrebbe essersi fatto male.»

Joffrey scrollò le spalle: «E allora?».

«Dovresti andare ad aiutarlo, dicendogli che è stato bravo comunque.» Sansa sembrava incapace di fermarsi.

«È stato disarcionato di sella ed è caduto nella polvere» ribatté il re. «Lo chiami essere stato bravo?»

«Guardate là» li interruppe il Mastino. «Il ragazzo dimostra coraggio: vuole ritentare.»

Stavano aiutando il principe Tommen a salire nuovamente in sella. “Se solo fosse Tommen il maggiore invece di Joffrey” non poté fare a meno di pensare Sansa. “Non mi dispiacerebbe andare sposa a Tommen.”

In quel momento, un rumore di catenacci colse tutti di sorpresa. Il clangore veniva dal posto di guardia: il ponte levatoio si stava abbassando, i grandi cancelli aperti con stridore di cardini rugginosi.

«Chi ha ordinato di aprire i portali?» tuonò Joffrey. Con i disordini che continuavano a infiammare le strade di Approdo del Re, la Fortezza Rossa era inaccessibile da giorni.

Una colonna di cavalieri emerse dall’arcata del ponte levatoio in un rumore assordante di metallo e di zoccoli. D’istinto, Clegane si accostò al suo re, la mano sull’elsa della spada da combattimento. I visitatori erano stremati, coperti di polvere e di fango eppure, alla loro testa, sventolava lo stendardo dei Lannister, leone dorato in campo porpora. Alcuni indossavano i mantelli rossi e le cotte di maglia di ferro dei soldati Lannister, ma la maggior parte erano mercenari, rivestiti delle più diverse corazze e armati di affilate lame d’acciaio. E poi… erano seguiti da altri, individui talmente mostruosi che sembravano usciti da una delle storie della vecchia Nan, quei racconti paurosi che a Bran piacevano tanto. Erano guerrieri coperti di malridotte pelli di animali e di cuoio usurato, con lunghi capelli e barbe incolte. Alcuni di loro portavano fasciature incrostate di sangue sulle sopracciglia e sulle nocche delle mani. Ad altri mancavano occhi, naso, dita.