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«In fretta, ora» ordinò il Monco.

Il grande ranger in sella al piccolo cavallo avanzò sulle pietre rese viscide dal ghiaccio. Avanzò dritto sotto la cascata… e scomparve. Non riemerse. A quel punto, Jon diede di speroni e gli andò dietro. Il suo cavallo fece del suo meglio per scartare. L’acqua li colpì con pugni gelidi. Il freddo tolse a Jon il respiro.

E poi fu dall’altra parte, fradicio e intirizzito, ma dall’altra parte.

La fenditura nella roccia era appena sufficiente per consentire il passaggio di un uomo a cavallo. Al di là, le pareti diroccia si allargavano e il terreno diventava di sabbia cedevole. Jon sentì piccoli ghiaccioli formarsi nella sua barba. Spettro emerse a sua volta dalla cascata con un impeto furibondo. Poi si scrollò l’acqua dalla pelliccia, annusò le tenebre in modo guardingo e infine alzò la zampa contro una roccia. Qhorin era già smontato, Jon lo imitò: «Tu sapevi che c’era questo posto».

«Quando avevo la tua età, sentii un confratello raccontare di come aveva inseguito una pantera-ombra attraverso queste cascate.» Tolse la sella, staccò morso e briglie e fece scorrere le dita sulla criniera arruffata del cavallo. «C’è un sentiero che porta nel cuore stesso della montagna. All’alba, se ancora non ci avranno trovato, ci rimetteremo in cammino. Il primo turno di guardia spetta a me, fratello.»

Qhorin si sedette sulla sabbia, la schiena contro la pietra, nulla più di una vaga forma nera nell’oscurità della caverna. Nel rombo dell’acqua che cadeva, Jon udì il suono attutito dell’acciaio contro il cuoio. Il Monco aveva estratto la spada.

Jon si tolse la cappa bagnata, ma era troppo freddo e umido per spogliarsi ulteriormente. Spettro si sistemò accanto a lui, leccandogli un guanto prima di raggomitolarsi a dormire. Jon fu grato del calore che emanava dall’animale. Si chiese se il fuoco che avevano acceso stesse ancora bruciando, o se invece si fosse ormai spento. “Se la Barriera dovesse cedere, anche tutti gli altri fuochi si spegneranno.” La luna continuò a brillare attraverso la cortina della cascata, tracciando tremolanti linee pallide sulla sabbia. Dopo qualche tempo, anch’esse svanirono e rimasero soltanto le tenebre.

Insieme al sonno, vennero gli incubi. Sognò castelli che bruciavano e uomini morti che risorgevano dalle loro tombe. Era ancora buio quando Qhorin venne a svegliarlo. Mentre il Monco dormiva, Jon rimase seduto con la schiena contro la parete della caverna, ascoltando la cascata e aspettando l’alba.

Alle prime luci mangiarono un po’ di carne di cavallo, sellarono nuovamente le loro cavalcature e si affibbiarono i mantelli neri sulle spalle. Durante il suo turno, il Monco aveva messo insieme una mezza dozzina di torce, imbevendo zolle di muschio secco con l’olio che portava nella sacca da sella. Dopo aver acceso la prima, s’inoltrò a piedi ancora più in profondità nel buio, reggendo in alto la debole fiamma. Jon lo seguì con i cavalli. Il sentiero roccioso era pieno di svolte, angoli improvvisi, salite, discese e altre salite ancora più ripide. In certi punti, era talmente stretto che fu difficile convincere i cavalli a passare. “Quando usciremo di qui, li avremo seminati” si disse Jon avanzando. “Neppure un’aquila può vedere attraverso la solida roccia. Cavalcheremo fino al Pugno dei Primi Uomini e diremo al Vecchio orso tutto quello che sappiamo.”

Ma quando riemersero nella luce del giorno, molte ore più tardi, trovarono l’aquila che li aspettava, appollaiata su un albero morto una trentina di metri più in alto. Spettro balzò sulle rocce per catturarla, ma l’aquila dispiegò le grandi ali e spiccò il volo.

Le mascelle di Qhorin si serrarono mentre seguiva il suo volo con lo sguardo. «Per affrontarli, va bene anche qui» dichiarò. «L’imboccatura della caverna ci protegge dall’alto, e non possono arrivarci da dietro senza passare dentro la montagna. È affilata la tua spada, Jon Snow?»

«Sì.»

«Diamo da mangiare ai cavalli. Ci hanno servito coraggiosamente, povere bestie.»

Jon diede l’ultima biada al suo animale, mentre Spettro si aggirava inquieto tra le rocce. Si infilò meglio i guanti, flettendo le dita bruciate. “Sono lo scudo che protegge i regni degli uomini.” Tra le montagne, echeggiò un corno da caccia. Qualche momento dopo, Jon udì l’abbaiare dei cani.

«Ci saranno addosso molto presto» avvertì Qhorin. «Tieni vicino il tuo lupo.»

«Spettro, da me» chiamò Jon. Il meta-lupo tornò con riluttanza al suo fianco, con la coda rigida e sollevata.

I bruti apparvero sulla sommità di un crinale a meno di un chilometro di distanza. I loro mastini corsero avanti per primi, ringhianti bestie dal pelo grigio e marrone, con ben più di qualche goccia di sangue di lupo nelle vene. Spettro mostrò le zanne, mentre la pelliccia gli si rizzava sul dorso.

«Buono» mormorò Jon. «Resta.» Sopra di lui, udì un battito d’ali. L’aquila si posò su uno sperone di roccia e lanciò un grido di trionfo.

I cacciatori, forse nel timore di venire bersagliati dalle frecce, si avvicinarono con cautela. Jon contò quattordici uomini e otto cani. I loro ampi scudi rotondi erano fatti di pelli tese su telai di vimine intrecciato, con un teschio dipinto al centro. Circa metà dei bruti indossava primitivi elmi di legno e cuoio trattato. Su ambo i fianchi dello schieramento, gli arcieri incoccarono frecce su piccoli archi di legno e corno, ma non lanciarono. Il resto sembrava armato di lance e mazze. Uno portava un’ascia di pietra tutta scheggiata. Indossavano solo pezzi di armature, sottratte ai corpi dei ranger morti o rubate durante le incursioni. I bruti non erano né minatori né fonditori, a nord della Barriera c’erano pochi fabbri e ancora meno forge.

Qhorin estrasse la sua spada lunga. La storia di come fosse stato il maestro di se stesso per imparare a combattere con la mano sinistra dopo aver perduto metà della destra era parte della sua leggenda di guerriero. Dicevano che fosse diventato addirittura più abile nel maneggiare la spada. Jon rimase spalla a spalla con lui, snudando Lungo artiglio dal fodero sulla schiena. Nonostante l’aria gelida, sentiva il sudore bruciargli gli occhi.

I cacciatori si fermarono a una decina di metri sotto l’imboccatura della caverna. Il loro capo venne avanti da solo, cavalcando una bestia che sembrava più un caprone che un cavallo, tanto agevolmente le sue zampe avanzarono sull’ineguale pendio di roccia. Mentre cavallo e cavaliere si avvicinavano, Jon udì un cozzare ripetuto a ogni passo: portavano entrambi corazze fatte d’ossa. Ossa di vacca, ossa di pecora, ossa di capra e di uri e di alce, le grandi ossa dei pelosi mammut… e anche ossa di uomini.

«Rattleshirt» lo salutò Qhorin, con glaciale cortesia.

«Per i corvi, io sono il Lord delle Ossa.» L’elmo del bruto era ricavato dal teschio spezzato di un gigante, e lungo le braccia aveva artigli d’orso cuciti nel cuoio.

«Io non vedo nessun lord» grugnì Qhorin. «Vedo solo un cane vestito d’ossa di pollo, che quando cavalca sbatacchia tutto.»

Il bruto emise un sibilo di rabbia, la sua cavalcatura si impennò. E in effetti, sbatacchiava, Jon lo udì perfettamente. Le ossa erano lasche, e a ogni movimento urtavano le une contro le altre.

«Sono le tue ossa che presto faranno questo rumore, Monco. Cuocio la carne per spolparla dalla tua carcassa e con le tue costole mi faccio un’armatura. Ti strappo i denti per farmi le rune, e mi mangio il porridge dal tuo cranio.»

«Vuoi le mie ossa? Perché non vieni a prenderle?»