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BRAN

Le ceneri ricadevano come una soffice nevicata grigia.

Avanzò sugli aghi di pino secchi e sulle foglie morte, raggiungendo il margine della foresta, dove gli alberi si diradavano. Oltre i campi aperti, poté vedere grandi cumuli di roccia-uomo stagliarsi contro vortici di fiamme. Il vento era torrido, saturo dell’odore del sangue e della carne bruciata. Un odore ferale, talmente forte che cominciò a sbavare.

Eppure, mentre un odore lo attirava, un altro odore lo respingeva. Annusò il fumo trascinato dal vento. “Uomini, molti uomini e molti cavalli. E poi fuoco, fuoco, fuoco.” Nessun odore era più carico di pericolo di quello, nemmeno l’odore duro e freddo del ferro, la materia degli artigli-uomo e della loro pelle indurita. Il fumo e la cenere lo accecavano. Nel cielo vide un grande serpente alato il cui ruggito era un fiume di fiamme. Snudò i suoi denti, ma a quel punto il serpente si era dileguato. Dietro le mura, alti fuochi salivano a divorare le stelle.

Per l’intera notte arsero quei fuochi. A un certo punto, ci fu un grande boato e un rombo che fece tremare la terra sotto i piedi. Cani abbaiarono e latrarono, cavalli nitrirono di terrore. Gli ululati proseguirono per tutta la notte. Ululati del branco-uomo, grida di paura e urla selvagge, risate e altre urla. Nessuna belva faceva tanto rumore quanto la belva-uomo. Tese le orecchie e rimase in ascolto, con suo fratello che bramiva a ognuno di quei suoni. Si aggirarono nell’ombra degli alberi, mentre il vento tra i pini proiettava ceneri e braci verso il cielo. Alla fine, le fiamme cominciarono a placarsi e quindi si estinsero. Quel mattino, il sole sorse livido e affumicato.

Fu solamente allora che si decise a lasciare la protezione delle foglie, procedendo lentamente all’aperto. Suo fratello venne al suo fianco, attratto dall’odore del sangue e della morte. Silenziosi, passarono vicino alle tane che gli uomini avevano costruito con legno, erba e fango. Molte di quelle tane stavano ancora bruciando, altre erano crollate, altre ancora rimanevano in piedi come prima. I corvi banchettavano sui cadaveri, e quando lui e suo fratello si avvicinavano si levavano in volo gracchiando. Cani selvatici scapparono davanti a loro.

Sotto le grandi muraglie grigie, un cavallo stava morendo. Faceva un sacco di rumore, cercando di risollevarsi su una gamba spezzata, nitrendo ogni volta che ricadeva. Suo fratello gli girò attorno, e gli squarciò la gola mentre il cavallo scalciava debolmente, roteando gli occhi. Quando anche lui si avvicinò alla carcassa, suo fratello digrignò i denti e spinse indietro le orecchie in segno di sfida. Lo colpì con la zampa, e poi lo morse. Lottarono sull’erba e sul terriccio, accanto al cadavere del cavallo, in mezzo alla cenere che continuava a cadere dal cielo. Alla fine, suo fratello rotolò sulla schiena in segno di sottomissione, la coda tra le zampe. Un altro morso alla gola esposta del cavallo, quindi cominciò a mangiare, lasciando che anche suo fratello lo facesse e leccò via il sangue dalla sua pelliccia nera.

Il luogo oscuro lo stava attirando a sé, la casa dei sussurri dove tutti gli uomini erano ciechi. Poté sentire le dita gelide di quel luogo scivolare su di lui. L’odore della pietra era come un bisbiglio che gli saliva nelle narici. Si oppose con forza. Non gli piacevano le tenebre. Lui era un lupo, era un cacciatore, un predatore e un uccisore. Apparteneva alle foreste profonde insieme ai suoi fratelli e alle sorelle, e correva libero sotto la volta delle stelle. Sedette sulle zampe posteriori, levò il muso e ululò. “Non andrò” voleva gridare. “Sono un lupo. Non andrò.” Ma le tenebre si chiusero comunque su di lui, coprendogli gli occhi, riempiendogli il naso, invadendogli le orecchie. Non poté più vedere, né udire, né fiutare, né correre. E le pareti grigie erano svanite, il cavallo era svanito e anche suo fratello era svanito, e tutto era buio e freddo e buio e morto e buio e freddo…

«… Bran» sussurrava una voce. «Bran, torna indietro. Torna indietro adesso. Bran, Bran…»

Chiuse il suo terzo occhio e riaprì gli altri due, che ormai erano vecchi e ciechi. Li riaprì nel luogo oscuro in cui tutti gli uomini erano ciechi. Qualcuno lo stava abbracciando. Poteva sentire attorno a sé il calore di un corpo premuto contro il suo. Poteva sentire Hodor che quietamente ripeteva: «Hodor, Hodor, Hodor…».

«Bran?» La voce di Meera. «Ti stavi agitando, emettendo suoni terribili. Che cos’hai visto?»

«Grande Inverno.» In bocca, la lingua gli sembrava troppo spessa. “Un giorno tornerò indietro, e mi accorgerò che non so più parlare.” «Era Grande Inverno. Ed era tutta avvolta dal fuoco. C’era odore di cavalli, e d’acciaio e di sangue. Hanno ucciso tutti, Meera.»

«Sei in un bagno di sudore» sentì la mano di lei sul suo volto, che gli spingeva indietro i capelli. «Vuoi da bere?»

«Da bere, sì» fu d’accordo Bran.

Gli portò un otre alle labbra e lui bevve con tale avidità che l’acqua gli ruscellò dall’angolo della bocca. Si sentiva sempre stremato, assetato, quando tornava indietro. E anche affamato. Ricordava il cavallo morente, il sapore del sangue in bocca, l’odore della carne bruciata nell’aria del mattino.

«Quanto tempo?»

«Tre giorni» fu Jojen a rispondergli. Il ragazzo delle Acque grigie si era avvicinato in silenzio, o forse era sempre stato là. In questo mondo nero e cieco, Bran non era in grado di dirlo. «Abbiamo temuto per te.»

«Ero con Estate» rispose Bran.

«Troppo a lungo. Finirai con il morire di fame. Meera ti ha fatto mandare giù un po’ d’acqua e ti abbiamo passato del miele sulle labbra, ma non è abbastanza.»

«Ho mangiato» assicurò Bran. «Abbiamo preso un alce e messo in fuga un felino degli alberi che ha cercato di rubarcelo.»

Il felino era a chiazze marrone chiaro e scuro, metà della taglia dei meta-lupi, ma feroce. Ricordava ancora il suo odore penetrante, e come aveva ringhiato contro di loro, con gli artigli piantati nel ramo della quercia.

«È il lupo che ha mangiato» disse Jojen. «Non tu. Devi avere cura di te stesso, Bran. Devi ricordarti chi sei.»

Ricordava fin troppo bene chi era: Bran lo storpio, Bran lo spezzato. “Meglio essere Bran la belva.” Era davvero così sorprendente che volesse continuare a sognare i suoi sogni con Estate, i suoi sogni di lupo? Qui, nell’umidità fredda e tenebrosa delle cripte, il suo terzo occhio si era finalmente aperto. Adesso era in grado di raggiungere Estate ogni volta che voleva. Una volta, aveva addirittura toccato Spettro e parlato con Jon. O forse, quello lo aveva soltanto immaginato. Non riusciva a capire per quale ragione adesso Jojen voleva sempre riportarlo indietro.

«Devo dire a Osha quello che ho visto» puntando le braccia, Bran si mise in posizione seduta. «È qui? Dov’è andata?»

«Da nessuna parte, milord» rispose la donna dei bruti. «Sono sempre qui a brancolare nel buio.»

Bran udì il raschiare di un piede contro la pietra e ruotò la testa verso la sorgente del suono. Non vide nulla. Pensò di sentire il suo odore, ma non ne era certo. Tutti loro avevano lo stesso puzzo, e lui non aveva l’olfatto di Estate per riuscire a distinguerli l’uno dall’altro.

«Ieri notte, ho pisciato sul piede di un re» continuò Osha. «Magari però era mattina, chi lo sa? Stavo dormendo, ma adesso sono sveglia.»

Tutti loro dormivano molto, non solamente Bran. Non c’era nient’altro da fare, là dentro. Dormire e mangiare e dormire di nuovo. A volte, forse, parlare un po’… ma non troppo, e solamente a bisbigli, per non correre rischi. Osha avrebbe preferito che non parlassero affatto, ma non c’era modo di fare stare tranquillo Rickon, né di impedire a Hodor di ripetere senza fine «Hodor, Hodor, Hodor».

«Osha» riprese Bran. «Ho visto Grande Inverno che bruciava.» Da qualche parte alla sua sinistra, poteva udire il respiro di Rickon.