«Hodor» disse Bran. «Apri questa porta.»
Il colossale ragazzo si appoggiò a braccia tese e spinse, spinse. «Hodor?» Batté un pugno contro il legno, ma questo nemmeno si mosse. «Hodor.»
«Usa la schiena» insisté Bran. «E le gambe.»
Hodor si girò, appoggiò la schiena contro la porta e spinse ancora. Mise poi un piede su un gradino più in alto, chinandosi sotto l’inclinazione della porta, cercando di sollevarla. Questa volta, il legno si lamentò e scricchiolò. «Hodor!» Anche l’altro piede salì di un gradino. Hodor allargò le gambe, raccolse le sue forze e spinse. La sua faccia divenne rossa, Bran vide i tendini del collo gonfiarsi come funi mentre lottava contro il peso sopra di lui. «Hodor Hodor Hodor Hodor Hodor…» Da sopra venne un rombo cupo.
«… Hodor!»
Di colpo, la porta cedette. La lama di luce del giorno investì il viso di Bran accecandolo per un istante. Un’altra spinta portò loro un rumore di pietre che rotolavano, e alla fine la via su aperta. Osha fece passare la punta della picca nel varco, poi strisciò fuori per prima. Rickon la seguì, infilandosi in mezzo alle gambe di Meera. Hodor finì di spalancare la porta e uscì a sua volta. I due fratelli Reed trasportarono Bran per gli ultimi scalini.
Il cielo era grigio pallido, e il fumo si levava tutto intorno a loro. Rimasero immobili nell’ombra della Prima Fortezza, o meglio di quanto ne rimaneva. Un intero lato dell’edificio aveva ceduto ed era crollato. Pietre e doccioni distrutti erano disseminati per tutto il cortile. “Sono caduti da dove sono caduto io” pensò Bran nel vederli. Alcuni doccioni si erano frantumati in così tanti pezzi da indiarlo a chiedersi come avesse fatto a restare vivo. A breve distanza, alcuni corvi stavano beccando un corpo schiacciato sotto alcuni massi. Il cadavere era riverso, per cui Bran non poté riconoscerlo.
La Prima Fortezza era in disuso da centinaia d’anni, ma adesso era davvero ridotta a un rudere. Al suo interno, pavimenti e travature erano bruciate completamente. Dove il muro era crollato, si poteva vedere direttamente dentro le stanze, perfino nelle latrine. Eppure, dietro di essa, la Torre Spezzata continuava a ergersi, non più bruciata di prima. Jojen Reed stava tossendo a causa di tutto quel fumo.
«Portatemi a casa!» protestò Rickon. «Voglio andare a casa!» Hodor si mise a camminare in circolo: «Hodor» ripeteva con un filo di voce. «Hodor.» Rimasero immobili, gli uni vicino agli altri, circondati dalla morte e dalla distruzione.
«Abbiamo fatto abbastanza baccano da svegliare un drago» disse Osha. «Ma qua non arriva nessuno. Il castello è morto e bruciato, proprio come diceva Bran. A noi però è andata be…»
Un suono improvviso alle loro spalle la interruppe, facendola ruotare su se stessa con la picca protesa.
Due snelle forme scure emersero da dietro la Torre Spezzata, avanzando lentamente tra le macerie. Rickon lanciò un grido di felicità: «Cagnaccio!». Il meta-lupo nero corse verso di lui. Estate avanzò con maggior cautela, arrivando a strofinare il muso contro il braccio di Bran, leccandogli la faccia.
«Dobbiamo andare via» disse Jojen. «Tutta questa morte ci farà arrivare addosso altri lupi oltre a Estate e Cagnaccio… e non tutti a quattro zampe.»
«Sì, e andare in fretta» concordò Osha. «Ma ci serve cibo, e qualcuno potrebbe essere sopravvissuto. State uniti. Meera, scudo pronto, e guardaci le spalle.»
Ci volle il resto della mattina per esplorare il castello. Le grandi mura di granito rimanevano, annerite qua e là dagli incendi, ma per il resto intatte. Dentro, però, morte e distruzione imperavano. Le porte della Sala Grande erano annerite e ancora fumanti. Le travature avevano ceduto e l’intero tetto era crollato. Le lastre verdi e gialle che proteggevano i giardini vetrati erano in mille pezzi, alberi, frutti e fiori erano devastati o lasciati privi di protezione, a morire. Delle stalle, fatte di legno e di paglia, non rimanevano altro che ceneri, braci e cavalli morti. Pensando alla sua Danzatrice, a Bran venne voglia di piangere. Sotto la Torre della Biblioteca, si era formato un basso lago fumante, acqua calda che continuava a eruttare da una fenditura nel fianco della costruzione. Il ponte coperto di collegamento tra la Torre della Campana e l’uccelliera era crollato nel cortile sottostante. La torretta di maestro Luwin era sparita. Il vago bagliore di un incendio brillava dalle strette finestre degli scantinati della Grande Fortezza, un secondo incendio bruciava ancora nei magazzini.
Man mano che avanzavano, Osha lanciava richiami nel fumo. Nessuno rispose. Un cane stava divorando un cadavere, ma quando percepì l’odore dei meta-lupi fuggì. Tutti gli altri animali erano stati sterminati nei canili. Anche i corvi messaggeri del maestro stavano banchettando con dei cadaveri, così come i corvi che nidificavano nella Torre Spezzata. Bran riconobbe Tym il Foruncoloso anche se qualcuno gli aveva aperto la faccia in due con un colpo d’ascia. Un cadavere carbonizzato, appena fuori dal guscio incenerito del Tempio della Madre, era seduto con le braccia alzate e le mani nere chiuse a pugno, quasi sfidando chiunque ad avvicinarsi.
«Se gli dei sono con noi» la voce di Osha era bassa, piena di rabbia «gli Estranei si porteranno quelli che hanno fatto questo.»
«È stato Theon» disse Bran cupamente.
«No, guarda» Osha indicò nel cortile con la picca. «Quello è uno dei suoi uomini di ferro. E là, quello è il cavallo da guerra di Greyjoy, vedi? Quello nero con tutte le frecce piantate dentro.» Si spostò tra i morti, con la fronte aggrottata. «E qui c’è Lorren il Nero.» Era stato macellato al punto che la sua barba era diventata di un colore rosso scuro. «Se n’è tirati dietro parecchi, però.» Osha rivoltò uno dei corpi con un piede. «Qui c’è un emblema. Un piccolo uomo, tutto rosso.»
«L’uomo scuoiato di Forte Terrore» disse Bran.
Improvvisamente, Estate emise un ululato e schizzò via.
«Il parco degli dei…» Meera Reed, con lo scudo e la lancia in pugno, corse sulla scia del meta-lupo.
Gli altri lo seguirono, avanzando tra le volute di fumo e le pietre crollate. L’aria era migliore sotto gli alberi. Ai margini del parco, qualche pino era stato annerito dal fuoco, ma più in avanti la vegetazione e il terreno umido avevano vinto le fiamme.
«C’è della forza nel legno che vive» Jojen Reed parve quasi leggere quello che passava nella mente di Bran. «Una forza possente quanto quella del fuoco.»
Maestro Luwin giaceva sul ventre, sul bordo della pozza di acqua scura al centro del parco degli dei, sotto la protezione dell’albero del cuore. Dietro di lui, sulle foglie cadute, una scia di sangue scuro indicava la strada che aveva percorso strisciando. Estate si fermò accanto a lui. Sulle prime, Bran pensò che l’anziano sapiente fosse morto. Ma quando Meera gli tastò la gola, Luwin emise un debole lamento. «Hodor?» disse Hodor, pieno di tristezza. «Hodor?»
Delicatamente, girarono Luwin sulla schiena. Aveva occhi grigi e capelli grigi. Un tempo, anche le sue tonache erano state grigie, ma adesso apparivano molto più scure, per tutto il sangue che le impregnava.
«Bran…» disse piano, nel vederlo alto nella cesta sulle spalle di Hodor. «E anche Rickon.» Il vecchio sorrise. «Gli dei sono misericordiosi. Lo sapevo…»
«Lo sapevi?» Bran non capiva.
«Le gambe, l’avevo capito… i vestiti erano giusti… ma i muscoli delle gambe… di quel ragazzino decapitato… povero figlio…» Tossì, e sputò altro sangue. «Siete svaniti… nella foresta… come?»
«Non siamo mai andati nella foresta» rispose Bran. «Be’, solo fino ai margini, e poi siamo tornati subito indietro. Ho mandato avanti i meta-lupi a lasciare le tracce, ma ci siamo nascosti nella tomba del lord mio padre.»