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Le voci bisbigliano e mormorano, discutono e piangono. Le immagini mi svolazzano in fondo alla mente come colori dopo un terribile colpo sulla testa. Sono tutto rigido, serro i pugni, stringo i denti, faccio sporgere le vene del collo, come per resistere a un vento terribile o a un’ondata di dolore.

«No, no» dice intanto Aenea, accarezzandomi la guancia e le tempie. Goccioline di sudore galleggiano intorno a me come una sgradevole aureola. «No, Raul, rilassati. Sei molto sensibile, amore, proprio come pensavo. Rilassati e lascia che le voci smettano. Puoi controllarle, caro. Puoi ascoltarle quando vuoi, zittirle quando devi.»

«Ma non andranno mai via?»

«Non si allontaneranno molto» bisbiglia Aenea. Angeli Ouster aleggiano nella luce del sole al di là della barriera di foglie rivolta alla stella.

«E tu le hai ascoltate fin da quando eri piccolissima?»

«Fin da prima di nascere» mi risponde il mio tesoro.

«Mio Dio, mio Dio» dico, tenendo i pugni sugli occhi. «Mio Dio.»

Mi chiamo Amnye Machen Al Ata e ho undici anni standard, quando la Pax viene nel mio villaggio su Qom-Riyadh. Il villaggio è lontano dalle città, lontano dalle poche autostrade e sopraelevate, lontano perfino dalle carovaniere che incrociano il deserto roccioso e le piane Ardenti.

Per due giorni i cieli della sera hanno mostrato le navi della Pax, puntini simili a braci luminose, passare da est a ovest in quello che secondo mio padre è un posto sopra l’aria. Ieri la radio del villaggio ha trasmesso ordini dell’imam di Al-Ghazali, che sulle linee telefoniche ha saputo da Omar che tutti, nelle terre Alte e nei campi Oasi delle piane Ardenti, devono radunarsi fuori della propria yurt e aspettare. Mio padre è andato alla riunione degli uomini nella moschea dai muri di fango del nostro villaggio.

Il resto della mia famiglia aspetta fuori della nostra yurt, la tenda circolare di pelli. Anche le altre trenta famiglie aspettano. Il nostro poeta locale, Farad ud-Din Attar, gira fra noi e cerca di calmarci recitando versi, ma anche gli adulti sono impauriti.

Mio padre è tornato. Dice a mia madre che il mullah ha deciso: non possiamo aspettare che gli infedeli ci uccidano. La radio del villaggio non è riuscita a mettersi in contatto con la moschea di Al-Ghazali né con Omar. Mio padre pensa che la radio sia di nuovo rotta, ma il mullah crede che gli infedeli abbiano ucciso tutti a ovest delle piane Ardenti.

Sentiamo il rumore di spari davanti alle altre yurt. Mia madre e la mia sorella più anziana vogliono scappare via, ma mio padre ordina loro di restare. Ci sono delle grida. Guardo il cielo, mi aspetto che le navi degli infedeli della Pax ricompaiano. Quando abbasso di nuovo gli occhi, le guardie del mullah girano intorno alla nostra yurt e mettono nuovi caricatori nelle carabine. Hanno un’espressione sinistra.

Mio padre ci dice di alzare le mani. «Dio è grande» dice e noi rispondiamo: «Dio è grande». Perfino io so che "Islam" significa sottomissione alla misericordia di Allah.

All’ultimo istante vedo le braci nel cielo, le navi della Pax che vanno da est a ovest tagliando lo zenit, altissime.

«Dio è grande!» grida mio padre.

Sento gli spari.

«Aenea, non so cosa significano queste cose.»

«Raul, non significano, esistono.»

«Sono reali?»

«Reali come può esserlo qualsiasi ricordo, mio caro.»

«Ma come posso sentire le voci… tante voci… appena… con la mente tocco una… questi sono ricordi più forti dei miei, più chiari.»

«Nondimeno sono ricordi, amore.»

«Dei morti…»

«Sì, dei morti.»

«Apprendere il linguaggio dei…»

«In molti modi dobbiamo apprendere il loro linguaggio, Raul. La loro lingua — inglese, yiddish, polacco, parsi, tamal, greco, cinese mandarino — ma anche il loro cuore. L’anima della loro memoria.»

«Sono voci di spettri, Aenea?»

«Non ci sono spettri, amore. La morte è definitiva. L’anima è quell’ineffabile combinazione di memoria e di personalità che portiamo con noi durante la vita; quando la vita se ne va, anche l’anima muore. A parte ciò che lasciamo nel ricordo di coloro che ci hanno amato.»

«E questi ricordi…»

«Risuonano nel Vuoto che lega.»

«Come? Tutti quei miliardi di vite…»

«E migliaia di specie e miliardi di anni, amore mio. Alcuni ricordi di tua madre… e di mia madre… sono qui, ma ci sono anche le impressioni di vita di esseri lontanissimi da noi nello spazio e nel tempo.»

«Posso toccare anche loro, Aenea?»

«Forse. Col tempo e con la pratica. Io ho impiegato anni a capirli. Perfino le impressioni sensoriali di forme di vita dall’evoluzione così diversa sono difficili da capire, figuriamoci i pensieri, i ricordi, le emozioni.»

«Ma tu ci sei riuscita?»

«Ho tentato.»

«Forme di vita aliene come i Seneschai Aluit o gli Akerataeli?»

«Molto più aliene, Raul. I Seneschai vissero per generazioni nascosti su Hebron in prossimità dei coloni umani. E sono empatici, le emozioni sono il loro linguaggio primario. Gli Akerataeli sono del tutto diversi da noi, ma non così diversi dalle entità del Nucleo che mio padre andò a trovare.»

«La testa mi duole, ragazzina. Puoi aiutarmi a fermare queste voci e queste immagini?»

«Posso aiutarti a quietarle, amore. Non si fermeranno mai realmente, finché vivremo. È la benedizione e il fardello della comunione col mio sangue. Ma prima di mostrarti come quietarle, ascolta ancora qualche minuto. È quasi il momento del volgersi delle foglie e del sorgere del sole.»

Mi chiamavo Lenar Hoyt, prete, ma ora sono papa Urbano XVI e celebro la messa di risurrezione per il cardinale John Domenico Mustafa, nella basilica di San Pietro, alla presenza di oltre cinquecento fra i più importanti fedeli del Vaticano.

In piedi davanti all’altare, a mani protese, leggo dalla Preghiera dei fedeli:

Invochiamo con fede Dio nostro padre onnipotenteche richiamò dai morti Cristo suo figlioper la salvezza di tutti.

Il cardinale Lourdusamy, che per questa messa mi fa da diacono, intona:

Possa Egli riportare nella perpetua compagnia dei fedeli,questo cardinale deceduto, John Domenico Mustafache un tempo ricevette col battesimo il seme della vita eterna.Preghiamo il Signore.
Possa egli, che esercitò in vita l’ufficio episcopalenella Chiesa e nel Sant’Uffizio,servire di nuovo Dio, nella sua vita rinnovata.Preghiamo il Signore.
Possa Egli dare all’anima dei nostri fratelli, sorelle, parentie benefattorila ricompensa per le loro fatiche.Preghiamo il Signore.
Possa Egli accogliere nella luce del suo sostegnotutti coloro che dormono in attesa della risurrezionee garantire loro la risurrezioneaffinché possano meglio servirlo.Preghiamo il Signore.
Possa Egli assistere e benevolmente consolarei nostri fratelli e sorelle che patiscono doloreper gli attacchi dei senza Dioe la derisione di chi è caduto.Preghiamo il Signore.
Possa Egli un giorno chiamare nel suo glorioso regnotutti gli uomini qui riuniti in fede e preghierae dare a noi come ricompensa lo stesso dono benedettodella risurrezione temporale nel nome di Cristo.Preghiamo il Signore.

Ora, mentre il coro canta l’antifona dell’Offertorio e i fedeli si inginocchiano nel silenzio pieno d’echi in attesa della sacra eucaristia, giro le spalle all’altare e dico:

«Ricevi, Signore, questi doni che ti offriamo in nome del tuo servo, cardinale John Domenico Mustafa; Tu hai dato la ricompensa dell’alta carica sacerdotale in questo mondo; possa egli essere brevemente unito alla compagnia dei tuoi santi nel regno dei cieli e tornare a noi tramite il tuo sacramento di risurrezione. Per Cristo Nostro Signore.»