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I display tremolarono. «Tengono» disse la Vera Voce dell’Albero Het Masteen. «Tengono.»

Si riferiva ai campi difensivi. Ma anche la Pax teneva duro, ci tempestava di lance d’energia anche mentre acceleravamo fuori sistema. A parte i display olografici, non c’era segno di nostro movimento, non si vedevano stelle, solo lo scoppiettante, sibilante, ribollente ovoide di energia distruttiva che gorgogliava e strisciava qualche decina di metri sopra di noi e intorno a noi.

«La rotta, prego?» chiese Het Masteen a Aenea.

La mia amica si toccò appena la fronte, come se si sentisse stanca o smarrita. «Solo fuori, dove possiamo vedere le stelle.»

«Non arriveremo mai a un punto di traslazione, sotto un attacco così violento.»

«Lo so» disse Aenea. «Solo… fuori… dove posso vedere le stelle.»

Het Masteen alzò gli occhi verso l’inferno sopra di noi. «Forse non vedremo mai più le stelle.»

«Dobbiamo vederle» disse semplicemente Aenea.

Ci fu un improvviso trambusto di grida. Guardai verso l’origine di quella confusione.

Più in alto del ponte di comando c’erano solo alcune piccole piattaforme che parevano coffe di navi pirata da olodramma o la capanna sui rami di un albero che ricordavo d’avere visto una volta nelle paludi di Hyperion. Proprio in una di quelle piattaforme era comparsa una figura. Cloni d’equipaggio la indicavano e gridavano. Het Masteen scrutò la piattaforma quindici metri più in alto e si rivolse a Aenea. «Il Signore della Sofferenza viaggia con noi.»

I colori dell’inferno scatenato all’esterno del campo di contenimento si riflettevano sulla fronte e sul torace dello Shrike.

«Credevo che fosse morto su T’ien Shan» dissi.

Aenea pareva più stanca di quanto non l’avessi mai vista. «Quella creatura si muove nel tempo più facilmente di quanto noi non ci muoviamo nello spazio, Raul. Può essere morta su T’ien Shan, può morire fra mille anni in uno scontro col colonnello Kassad, può non essere in grado di morire… non lo sapremo mai.»

Come evocato dal suo nome, il colonnello Fedmahn Kassad salì le scale del ponte di comando. Indossava un’arcaica tenuta da guerra dell’Egemonia e portava il fucile d’assalto che ricordavo d’avere visto nell’armeria della nave del console. Fissò, come invasato, lo Shrike.

«Posso salire lassù?» domandò al capitano templare.

Sempre impegnato a dare ordini e a controllare i display, Het Masteen indicò alcune griselle e scale di corda che arrivavano alla piattaforma più alta.

«Niente sparatorie su questa nave» disse poi. Kassad annuì e iniziò a salire.

Tornammo a guardare i display. Almeno tre Arcangelo dirigevano una parte del proprio fuoco contro di noi, da una distanza di meno di un milione di chilometri. Facevano a turno a colpirci e poi prendevano di mira altri bersagli. Ma il nostro insolito rifiuto a morire pareva accrescere la loro collera e le loro lance di energia tornavano a colpire noi, strisciavano nella distanza che ci separava, da quattro a dieci secondi luce, ed esplodevano contro il nostro campo protettivo. Una delle navi stava per oltrepassare la curvatura dell’Albero Stella in fiamme, ma le altre due deceleravano ancora all’interno del sistema verso di noi e avevano campo di fuoco sgombro.

«Lancio di missili contro di noi» disse uno dei luogotenenti del capitano templare, con la stessa calma che avrei usato io per annunciare l’arrivo della cena. «Due… quattro… nove. Velocità sub-luce. Presumibili testate al plasma.»

«Possiamo sopravvivere a quei missili?» domandò Theo. Rachel si era spostata, guardava Kassad salire verso lo Shrike.

Het Masteen era troppo impegnato per rispondere. «Non sappiamo» disse Aenea. «Dipende dagli erg.»

«Sessanta secondi all’impatto» annunciò lo stesso luogotenente templare, nello stesso tono piatto.

Het Masteen toccò una barra di comunicazione. La sua voce era quella di sempre, ma capii che veniva amplificata per tutto il chilometro della nave-albero. «Ciascuno si schermi gli occhi ed eviti di guardare verso il campo. Gli erg polarizzeranno al massimo il lampo dell’esplosione, ma per favore nessuno guardi in alto. La pace del Muir sia con noi.»

Guardai Aenea. «Ragazzina, questa nave-albero è armata?»

«No» mi rispose. La sua espressione era stanca come la voce.

«Perciò non combattiamo… fuggiamo e basta?»

«Sì, Raul.»

Digrignai i denti. «Allora sono d’accordo con Lhomo. Abbiamo fatto troppe fughe. È tempo di aiutare i nostri amici qui. È tempo di…»

Almeno tre missili esplosero. La luce fu così accecante, ricordai in seguito, che fui sicuro di vedere il cranio e le vertebre di Aenea sotto la pelle e la carne, ma è assurdo. Provai un’impressione di caduta, di capovolgimento, e poi la gravità fu ripristinata. Un rombo subsonico mi causò dolorose vibrazioni ai denti e alle ossa.

Battei le palpebre per smaltire le immagini residue. Il viso di Aenea era sempre davanti a me — guance arrossate e madide, capelli tirati indietro da un nastro annodato alla buona, occhi stanchi ma vivi, braccia nude e abbronzate — e in un torbido momento di sentimentalità mi dissi che non sarebbe stato poi impensabile morire così, con il viso di Aenea impresso a fuoco nell’anima e nel ricordo.

Altre due testate al plasma squassarono la nave-albero. Poi altre quattro. «Tengono» disse il luogotenente di Het Masteen. «Tutti i campi tengono.»

«Lhomo e Raul hanno ragione, Aenea» disse la Dorje Phamo. Avanzò di un passo, con regale eleganza pur nella semplice veste di cotone. «Per anni sei scappata dalla Pax. È ora che tu combatta, che tutti noi combattiamo.»

Guardai intensamente l’anziana donna, in un modo che rasentava la maleducazione. Intorno a lei c’era un’aura… no, è la parola sbagliata, troppo mistica… da lei emanava una forte sensazione di colore, un carminio carico, forte come la personalità della Scrofa Folgore. Avevo già notato la stessa cosa, quella sera, in tutti i presenti sulla piattaforma — l’azzurro vivo del coraggio di Lhomo, l’oro della sicurezza nel comando di Het Masteen, lo scintillante violetto dello sconcerto del colonnello Kassad nel vedere lo Shrike — e mi domandai se non fosse una conseguenza dell’apprendere il linguaggio dei vivi. O forse era un risultato del sovraccarico di luminosità dovuto alle esplosioni al plasma. Qualsiasi cosa fosse, i colori non erano reali, lo sapevo, non avevo allucinazioni né offuscamento della vista, ma sapevo pure (o pensavo di sapere) che la mia mente creava quei collegamenti, quelle stenografiche occhiate fugaci nel vero spirito della persona, a un livello inferiore e superiore alla vista.

E sapevo che i colori intorno a Aenea si estendevano per tutto lo spettro e oltre: un bagliore così penetrante da riempire la nave-albero, sicuro come le esplosioni di plasma riempivano il mondo esterno.

Intervenne padre de Soya. «No, signora» disse alla Dorje Phamo, con tono calmo e rispettoso. «Lhomo e Raul non hanno ragione. Malgrado tutta la nostra rabbia e il desiderio di rispondere agli attacchi, ha ragione Aenea. Forse Lhomo imparerà, se resterà vivo, ciò che tutti noi impareremo, se resteremo vivi: dopo la comunione con Aenea, condividiamo la sofferenza di quelli che assaliamo. La condividiamo davvero. Letteralmente. Fisicamente. La condividiamo come parte dell’apprendimento del linguaggio dei vivi.»

La Dorje Phamo guardò il prete, più basso di lei. «Ciò che dici è vero, cristiano» replicò. «Ma non significa che non possiamo reagire contro chi ci fa del male!» Mosse il braccio in un gesto che comprendeva il campo di contenimento in fase di lenta schiarita e, oltre, lo spazio trapunto di code di fusione e di braci ardenti. «Questi… mostri… della Pax distruggono una delle maggiori conquiste della specie umana. Dobbiamo fermarli!»

«Non ora» disse padre de Soya. «Non combattendoli qui. Abbia fiducia in Aenea.»

Il gigantesco sergente Gregorius si intromise. «Ogni fibra del mio essere, ogni attimo del mio addestramento, ogni cicatrice dei miei anni di battaglia, ogni cosa mi spinge a combattere adesso» ringhiò. «Ma ho avuto fiducia nel mio capitano. Ora ho fiducia in lui come mio confessore. E se lui dice che dobbiamo avere fiducia in questa giovane donna… allora dobbiamo avere fiducia in lei.»